Il sale da cucina è inquinato dalle microplastiche

sale da cucina

Anche nel sale da cucina. Le microplastiche sono ormai arrivate nelle nostre pentole e inquinano anche il sale che utilizziamo per insaporire i cibi o che buttiamo nell’acqua bollente prima di cuocere gli spaghetti. Lo rivela un’indagine di Greenpeace, che ha analizzato 39 campioni provenienti da diversi paesi del mondo, Italia inclusa. La ricerca nata dalla collaborazione tra l’associazione ambientalista e l’Università di Incheon in Corea del Sud è stata pubblicata sulla rivista internazionale Environmental Science & Technology. E mostra come quasi il 90 per cento dei campioni esaminati (36 su 39) contenessero microplastiche, ovvero frammenti inferiori ai cinque millimetri di Polietilene, Polipropilene e Polietilene Tereftalato (PET), cioè le tipologie più comunemente utilizzate per produrre imballaggi usa e getta. In pratica, considerando l’assunzione media giornaliera di 10 grammi, un adulto potrebbe ingerire, solo attraverso il consumo di sale da cucina, circa 2 mila pezzi di microplastiche all’anno.

Il peggiore? Il sale marino

L’analisi ha considerato il sale marino, quello proveniente da laghi salati e quello di miniera. In generale nei campioni di sale marino è stata osservata una maggiore presenza di microplastiche (compresi tra 0 e 1674 microplastiche per chilo), seguiti dai campioni provenienti da laghi salati (compresi tra 28 e 462 microplastiche per chilo) e dalle miniere (compresi tra 0 e 148 microplastiche per chilo). Anche i tre campioni di sale provenienti dall’Italia, due di tipo marino e uno di miniera, sono risultati contaminati con un numero di particelle compreso tra 4 e 30 unità per chilogrammo.

Più plastica in mare, più plastica nel sale da cucina

La ricerca mostra anche come sia forte il legame tra i livelli di inquinamento ambientale e contaminazione dei campioni: di tutti i campioni analizzati, infatti, quelli provenienti dall’Asia hanno registrato i livelli medi di contaminazione più elevati, con picchi fino a 13 mila microplastiche in un campione proveniente dall’Indonesia che, secondo studi recenti, è seconda per l’apporto globale di plastica nei mari.

L’impegno delle aziende

Che le microplastiche siano presenti in moltissimi prodotti alimentari (pesci e frutti di mare, acqua di rubinetto) non è una novità. E questa ricerca non fa che confermare la gravità dell’inquinamento da plastica, e come per noi sia ormai impossibile sfuggire a tale contaminazione. “È necessario fermare l’inquinamento alla radice – dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia – ed è fondamentale che le grandi aziende facciano la loro parte riducendo drasticamente l’impiego della plastica usa e getta per confezionare i loro prodotti”. Per questo, nei mesi scorsi Greenpeace ha lanciato una petizione, sottoscritta da quasi due milioni di persone in tutto il mondo, con cui chiede ai grandi marchi come Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Ferrero, Unilever, San Benedetto, Procter & Gamble e McDonald’s di assumersi le proprie responsabilità, partendo dalla riduzione di contenitori e imballaggi in plastica monouso immessi sul mercato.

La gestione dei rifiuti

“I risultati suggeriscono che l’ingestione di microplastiche da parte dell’uomo può avvenire anche attraverso prodotti di origine marina, come il sale da cucina, e l’esposizione umana può dipendere dai livelli di contaminazione nelle differenti aree geografiche”, afferma Kim Seung-Kyu, professore dell’Università di Incheon e autore dell’articolo. “Per limitare la nostra esposizione alle microplastiche – conclude Seung-Kyu – sono necessarie misure preventive riguardo l’immissione di plastica in mare, una migliore gestione dei rifiuti in ambiente terrestre e, soprattutto, la riduzione della produzione di rifiuti in plastica”.

Riferimenti: Environmental Science & Technology

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