Bioterrorismo: quei microrganismi che fanno paura

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Ufficialmente sono venduti e acquistati per motivi di ricerca medica. La posta ha recapitato nelle mani di Saddam Hussein il materiale per un potente ordigno, il Clostridium botulinum. Nonostante la messa al bando delle armi chimiche e biologiche, imposta nel 1925 dal protocollo di Ginevra, molti paesi, più o meno apertamente, continuano a studiare e fabbricare armi per una guerra batteriologica. Ma che rischio c’è che siano usate per un attacco di bioterrorismo?

I dati parlano chiaro: virus e batteri oggi si conservano in 500 laboratori di circa 67 paesi. Tra questi, 54 centri custodiscono e vendono il bacillo dell’antrace per scopi di ricerca, 18 dispongono di microrganismi della peste. Poco è stato fatto finora per realizzare controlli efficaci. Così all’allarme bioterrorismo scattato negli ultimi giorni che ha allertato le task force dei paesi a rischio attentati, fa da contraltrare la decisione degli Stati Uniti di due mesi fa di non firmare, ufficialmente per motivi di sicurezza, proprio l’implementazione del protocollo di Ginevra.

“Non bisogna alimentare la psicosi di massa da gas tossici e batteri invisibili, ma nemmeno sottovalutare l’eventualità, anche se remota, che si possano verificare attacchi di questo tipo”, spiega Paolo Cotta Ramusino, docente di Fisica all’Università di Milano e membro dell’Unione Scienziati per il Disarmo. Numerosi paesi oggi hanno a disposizione un ricco arsenale di armi batteriologiche. Oltre agli Stati Uniti, anche la Federazione russa, l’Iran, gli Stati dell’ex Unione Sovietica, il Giappone, l’Iraq e Israele. Tutti paesi sui quali si hanno informazioni certe, ma esistono anche altri stati fortemente sospettati di avere un programma di ricerca sulle armi biologiche. Tra questi: Cina, Taiwan, Corea del Nord, Siria, Egitto e Cuba. E’ difficile infatti individuare i laboratori utilizzati per questo tipo di esperimenti, che hanno attrezzature simili a quelle degli ospedali.

Il vademecum dell’Oms contro i bioterrorismo

Per alleviare gli effetti di un attacco, l’Organizzazione mondiale della sanità ha rilasciato una sorta di vademecum che comprende alcune precauzioni. Come la rilevazione immediata del tipo di malattia scatenata, la diramazione dell’allarme, l’isolamento delle zone contaminate e la predisposizione dei soccorsi. Il piano d’intervento italiano prevede il potenziamento delle strutture disponibili e la possibilità di mettere in quarantena le persone contagiate da virus o batteri. Tra quelli più temuti, antrace, virus da febbri emorragiche, vaiolo e botulino, carbonchio, brucella, febbre Q, tularemia, Yersinia pestis. Si tratta di agenti altamente infettivi che possono essere coltivati in laboratorio. Anche se lo stato di allerta deve essere mantenuto, gli esperti di guerra batteriologica avvertono che i sintomi di queste malattie possono manifestarsi dopo un lungo periodo di incubazione, quando ormai le cure potrebbero non essere più sufficienti.

Quanto c’è da temere il bioterrorismo?

Quali sono i limiti per cui un attacco bioterroristico può essere considerato un’ipotesi realistica? “La minaccia più concreta è l’utilizzo di gas nervini, come il sarin, utilizzato durante l’attentato nella metropolitana di Tokyo nel 1995”, ha dichiarato Ruggero Stanglini, direttore di Panorama Difesa. E ha aggiunto: “Gas nocivi come sostanze radioattive potrebbero essere dispersi nell’atmosfera da un piccolo aereo o elicottero oppure diffusi con attacchi mirati di killer kamikaze in ambienti chiusi ma affollati come supermercati, uffici, cinema e ospedali”.

Meno probabile è invece l’ipotesi di un attacco batteriologico su larga scala. “Questo tipo di azioni”, spiega Cotta Ramusino, “sono limitate da difficoltà oggettive”. Le armi batteriologiche infatti sono difficili da conservare e usare, e un attacco deve considerare anche le condizioni meteorologiche. Tuttavia ancora oggi non esistono efficaci sistemi di difesa contro attacchi di questo tipo. Basti un esempio. L’esercitazione degli Stati Uniti ribattezzata ‘Dark Winter’ si è tradotta in un clamoroso fallimento: era una simulazione organizzata dal governo per contenere un’epidemia di vaiolo introdotto dai terroristi.

Già tre anni fa si era parlato dei rischi del bioterrorismo a un Congresso internazionale dei microbiologi di San Francisco. Le tecniche di ingegneria genetica sviluppate negli ultimi dieci anni hanno reso la guerra biologica un’ipotesi reale anche se remota dal punto di vista tattico.Eppure le manovre per contrastare la fabbricazione di questo tipo di ordigni fanno passi indietro.

Gli Stati Uniti proprio a fine luglio hanno rifiutato di firmare la bozza di protocollo per implementare il trattato contro le armi batteriologiche del 1972. Il testo prevedeva che i 140 firmatari del trattato dovessero rendere pubblici i siti che potrebbero essere usati per sviluppare armi batteriologiche e sottoporli a verifiche e controlli. Un altro dato desta sconcerto: sul sito del Ministero della Difesa italiano si possono consultare dei bandi per i seguenti acquisti 45.000 autoiniettori di atropina, l’antidoto per i gas nervini, nell’agosto 2001, 653 apparati portatili per la rivelazione di agenti chimici nel luglio 2001, nonché 70 mila maschere antigas Nbc, quelle per la guerra chimica. È probabile che l’eventualità di attacchi di bioterrorismo sia poco credibile, ma certamente i governi non hanno smesso di attrezzarsi.

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