Tutti concordano che siano la chiave del futuro, ma in Europa gli investimenti per svilupparle non sono ancora abbastanza. Per promuovere l’attenzione degli investitori e del grande pubblico sulle nanotecnologie la direzione ricerca della Commissione Europea ha riunito dal 9 al 12 dicembre a Trieste oltre 900 delegati tra ricercatori, investitori e rappresentanti di grandi aziende. L’occasione per delineare le prospettive future in questo campo e per lanciare la sfida a Stati Uniti e Giappone è stato Euronanoforum. Le nanotecnologie, in molti sensi, sono ancora nella loro infanzia. Proprio per questo servono grossi investimenti. Un tasto dolente per i ricercatori europei che denunciano come la partita con Stati Uniti e Giappone non sia alla pari. La Ue, attraverso il Sesto programma quadro della ricerca 2002-2006, ha previsto lo stanziamento di 1,3 miliardi di euro per “specifiche azioni di supporto” con l’obiettivo di colmare il ritardo che l’Europa ha nei confronti degli Usa nel settore della ricerca e dell’innovazione, e le nanotecnologie sono tra le priorità individuate. Nel complesso, contando gli investimenti privati, l’Europa è arrivata quest’anno a 650 milioni di euro investiti nel settore. “E’ un buon inizio, ma non è ancora abbastanza”, ha commentato a Trieste Ezio Andreata, direttore dell’area Tecnologie Industriali della Commissione Europea. La statunitense National Science Foundation infatti stanzia 700 milioni di dollari l’anno per le nanotecnologie, cui si aggiungono gli ingenti investimenti privati, e l’Agenzia giapponese dell’industria Nedo dedica annualmente un terzo del suo bilancio (tre miliardi di dollari) per lo sviluppo delle nuove tecnologie ed energie.Le applicazioni più promettenti descritte a Euronanoforum sono quelle attese nel settore medico-sanitario. Qui le nanotecnologie stanno già contribuendo a mettere a punto test diagnostici più veloci ed economici grazie ai “biochip” a Dna, in cui frammenti di acidi nucleici depositati sul silicio permettono di condurre test genetici, o di simulare le reazioni dell’organismo al contatto con determinate sostanze. In futuro, le nanotecnologie permetteranno anche di eseguire grandi quantità di test in poco tempo: le reazioni chimiche sono processi diffusivi, la cui velocità è proporzionale alla superficie coperta dal reagente. Un processo che richiederebbe 24 ore su un centimetro quadrato può essere completato in pochi secondi alla dimensione dei nanometri. Oltre alla diagnosi, le applicazioni riguarderanno anche la terapia. Le reazioni chimiche all’interno della cellula avvengono a dimensioni “nano”, e i principi attivi contenuti nei farmaci, come tutte le sostanze che condizionano il metabolismo, passano nella cellula attraverso pori delle dimensioni di pochi nanometri. Le nanotecnologie permetterebbero di produrre farmaci di maggiore efficacia, grazie a strutture piccolissime prefabbricate in grado di trasportare le molecole attraverso le membrane della cellula. “Proiettili magici” in grado di colpire accuratamente i luoghi in cui si sviluppa una malattia e “consegnare” quantità esatte di una farmaco, evitando la dispersione in altre parti del corpo. Per ottenere questo risultato sarebbe necessario incapsulare i principi attivi dentro a nanoparticelle, progettate in modo da legarsi a cellule o tessuti specifici. Sono in corso anche esperimenti con particelle magneticamente cariche, da guidare a destinazione grazie a campi magnetici applicati dall’esterno del corpo. Anche la ricerca pura ne guadagnerebbe, grazie a nanocristalli capaci di rispondere agli stimoli esterni emettendo luce di una particolare lunghezza d’onda: applicando queste particelle a molecole organiche sarebbe possibile seguirne il percorso attraverso i canali cellulari e quindi studiare i processi vitali.Non solo medicina, comunque. Già oggi, infatti, esistono applicazioni nel campo dei sensori o dell’elettronica basati sulla miniaturizzazione estrema dei componenti. Ma il vero salto di qualità avverrà quando si riuscirà a controllare l’autoassemblaggio di atomi. Questo processo è alla base della formazione dei cristalli o di molte strutture biologiche: agire su di essi significherebbe ridurre drammaticamente i costi e l’inquinamento delle produzioni industriali, perché per modificare le proprietà dei materiali non sarebbe più necessario innescare reazioni chimiche costose in termini energetici e con inevitabili sottoprodotti dannosi. Inoltre, l’autoassemblaggio aprirebbe la strada ad applicazioni completamente nuove: materiali per costruire motori più efficienti, microsensori per aumentare la sicurezza, e soprattutto soluzioni per l’immagazzinamento dell’idrogeno nelle auto del futuro, che lo impiegheranno come carburante.