Missioni su Marte: per scienza o per denaro?

Non aveva torto il settimanale scientifico ingleseNew Scientist nel suo editoriale del 9 novembre a fare dell’ironia sul successo di cui oggi sembra godere Marte. Dal ‘62 al ‘92 nove missioni americane e dieci sovietiche sono state dedicate allo studio del pianeta rosso, ad alcune di queste – le due Viking – dobbiamo una impressionante documentazione fotografica, ma anche un insuccesso nel dare una risposta definitiva al grande mistero: Marte in passato ha ospitato primitive forme di vita?

Il giallo sembrava risolto da un lavoro pubblicato sul numero del 16 agosto di Science, ma presentato con grande tempismo due settimane prima dalla Nasa, e ampiamente ripreso dai media. Gli estensori del rapporto sotenevano di aver trovato tracce indirette della presenza di colonie di microbatteri nel meteorite ALH84001, un frammento di roccia espulso dal suolo marziano per l’impatto di un enorme corpo estraneo, poi caduto in Antartide nelle Allan Hills dopo una millenaria peregrinazione nello spazio. Il lavoro del gruppo di McKay è come si suol dire “sub judice”, ma maliziosamente si potrebbe dire che dimostra un fantastico tempismo nel preparare l’immaginario collettivo alla ripresa delle imprese marziane. Il 6 novembre è partito il Mars Global Surveyor, prima missione di una lunga serie e di una collaborazione internazionale che prevede il lancio di almeno otto satelliti americani, a cui si aggiungeranno quelli in fase di realizzazione in altri paesi (Russia in testa). Il 16 novembre è partito da Baikonur il Mars ‘96 – finito nell’Oceano pacifico a causa di un problema al secondo stadio – a cui seguirà il 2 dicembre il Mars Pathfinder.

La perdita della navicella russa è una grave battuta d’arresto – perché aveva a bordo due “lander” e due “penetratori” che avrebbero dovuto effettuare un carotaggio sotto il suolo marziano e spianare la strada a successive missioni – paragonabile al flop del Mars Observer americano, di cui si perse il controllo il 21 agosto del ‘93, prima del suo arrivo a destinazione, evento che scatenò negli Stati Uniti vivaci polemiche sullo stato di salute della tecnologia di punta in quel paese.

Ovviamente le cronache spaziali ci hanno abituato agli incidenti di percorso, ma stavolta a sollevare critiche è una certa disinvoltura della Nasa – e qualche caduta di stile – nel “battage” pubblicitario con cui l’agenzia intende stimolare l’immaginario collettivo sulle imprese marziane. La riprova più evidente è la testimonianza alla Camera dei Rappresentanti americana del dottor Wesley Huntress, amministratore associato del dipartimento per le scienze spaziali della Nasa, resa il 12 settembre, e pervaso da una sorta di rinnovata tensione per la “nuova frontiera”. Stavolta l’enfasi del suo intervento va ampiamente al di là di quanto richiesto in una onesta operazione di “lobbing” e sembra largamente richiamare l’ossessione delle origini: siamo soli nell’universo, oppure la vita si è sviluppata così vicino a noi che è possibile trovarne le tracce nel passato di un pianeta a noi così familiare?

Marte non è nuovo a questi exploit e sembra un’ottima palestra per ridare vigore a una discussione mai completamente sopita (come dimenticare le polemiche, anche feroci, sui dati biologici della missione Viking?). Una conferma a tutto questo la si ricava da un’intervista concessa da Daniel Goldin, amministratore della Nasa, ad Aviation Week, dove la tesi è esposta in chiaro: se fossero confermate le ipotesi sulla presenza di vita nel sottosuolo marziano potremmo rilanciare una missione umana sul pianeta rosso nel secondo decennio del prossimo secolo, quello che si potrà fare nel frattempo dipenderà dai dati raccolti dalle prime sonde. Questo spiega perché la Nasa si sia impegnata a diffondere “in tempo reale” su Internet le immagini di Mars Global Surveyor – appuntamento previsto per settembre ‘97 – sulla “faccia” nella regione marziana di Cydonia. Il rilievo, lungo circa 1,5 chilometri, ha una vaga rassomiglianza con un volto umano, se illuminato da una luce di taglio, ed è stato fotografato da Viking 1 nel luglio del ‘76, cosa che per due decenni ha alimentato esoteriche congetture sulla presenza umana nel pianeta rosso.

Sul piano scientifico – e a proposito di cadute di stile – non mancano le polemiche. Nature del 7 novembre rimprovera agli estensori dell’articolo su ALH 84001 di aver “dimenticato” che il primo lavoro su residui fossili di attività batterica in un meteorite marziano è stato pubblicato sulla rivista inglese nell’89 (EETA 79001, Pillinger et al.). La stoccata di Nature è sottile: non a caso il lavoro su ALH 84001 è stato letteralmente vivisezionato all’annuale convegno dell’American Astronomical Society, che si è tenuto a Tucson a metà ottobre. I detrattori del lavoro sostengono che l’età geologica del reperto, 3,6 miliardi di anni, porta a credere che su Marte non vi fossero condizioni per lo sviluppo di forme di vita a causa dell’elevata temperatura. EETA 79001 ha “soltanto” 180 milioni di anni, e questo significa due cose: la prima è che si è formato in un periodo in cui Marte era certamente più freddo, la seconda è che EETA 79001 è stato espulso dal suolo marziano 600 mila anni fa, quando l’Homo erectus si era già largamente insediato nella savana africana (e quindi la vita non arriva da Marte…).

L’editoriale di Nature del 31 ottobre è ancora più duro e accosta il tema della vita su Marte alla fusione fredda, mentre l’occhiello recita “la diffusione prematura di risultati scientifici è contraria agli interessi degli scienziati, dei giornalisti e del pubblico. La consuetudine dell’embargo sulle press release darebbe benefici e migliorerebbe la qualità della copertura di notizie scientifiche sui media”. In altri termini, quando tutti urlano a chi mai potrà interessare la sofisticatissima querelle sui dati del carbonio-12 in ALH 84001?

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