Si chiama X perché per molto tempo non ci si è capito nulla. Il ventitreesimo cromosoma umano, nella sua versione “femminile” (nel senso che nelle femmine appare in due copie, nei maschi in una sola) è da sempre un osso duro per i genetisti, perché pieno di elementi ripetuti che ne hanno complicato il sequenziamento. Finalmente, sull’ultimo numero di Nature appare la sua mappa completa, a cui hanno contribuito, tra i molti, anche i ricercatori dell’Istituto Telethon di Genetica Medica di Napoli guidati da Andrea Ballabio. Lo studio permette prima di tutto di comprendere meglio la storia evolutiva di X e della sua nemesi, Y. I due cromosomi sessuali umani costituivano un tempo una coppia di autosomi (cioè cromosomi omologhi, come tutti gli altri del nostro patrimonio genetico), e si sono separati circa 300 milioni di anni fa. A quel punto Y ha acquistato la proprietà di determinare il sesso maschile. I due cromosomi mantengono ancora regioni piuttosto simili, collocate sull’estremità del braccio lungo, il punto da cui evidentemente è partita l’evoluzione. Tuttavia, il cromosoma Y si è ridotto a una versione degradata, accorciata e povera di geni del suo progenitore. Quanto a X, ha sviluppato una particolare strategia per fare in modo che maschi e femmine avessero all’incirca lo stesso livello di attività genica: in uno dei due cromosomi X di una femmina, buona parte dei geni è “silenziata”. All’inizio dello sviluppo dell’organismo, le cellule scelgono in modo casuale se usare il cromosoma X paterno o quello materno. Ma le cose sono più complicate di quanto finora si pensasse. Su Nature, la mappatura del cromosoma è accompagnata infatti da uno studio, firmato da ricercatori della Penn State University, proprio sui meccanismi di inattivazione del cromosoma X. La conclusione è che il secondo X è molto meno attivo di quanto si credesse. E gli effetti della “doppia” attività dei geni di X potrebbero spiegare alcune differenze fisiologiche tra uomini e donne che non possono essere ricondotte solo all’attività ormonale. I ricercatori hanno studiato due diverse colture, una di cellule dell’epidermide e un’altra di diverse linee cellulari, per confrontare l’espressione genica del cromosoma X attivo e di quello inattivo. E hanno verificato che i geni effettivamente inattivi in entrambe le colture erano solo il 65 per cento. Venti su cento erano inattivi solo in alcuni campioni e non negli altri, mentre il 15 per cento erano sfuggiti all’inattivazione in tutti i campioni. In più molti dei geni espressi nel cromosoma X inattivo erano espressi solo parzialmente. Collegando questi studi alla storia evolutiva di X, che si è evoluto in cinque segmenti o strati successivi, si è capito che sono i segmenti più vecchi quelli dove sono presenti più geni che sfuggono all’inattivazione. A questo punto i ricercatori hanno un quadro più chiaro delle differenze tra il genoma maschile e quello femminile. Per cominciare, e questo si sapeva, il cromosoma Y dà agli uomini alcuni geni assenti nella donna, che sono quelli che inducono lo sviluppo degli organi sessuali maschili e la produzione ormonale responsabile degli altri tratti somatici maschili. In più, circa il 15 per cento dei geni è espresso a livelli più alti nelle donne rispetto agli uomini. E un ulteriore 10 per cento dei geni può essere espresso a livelli variabili nelle donne, mentre gli uomini ne hanno una sola copia.Le implicazioni cliniche di questo studio per ora sono ancora tutte da comprendere. Ma è probabile che la maggiore espressione di alcuni geni possa spiegare perché molte malattie si manifestano, nelle donne, in modo decisamente diverso rispetto agli uomini, e perché esse rispondano spesso in modo molto diverso agli stessi trattamenti. Differenze da sempre attribuite ai fattori ormonali, che tuttavia non sembrano nella maggior parte dei casi una spiegazione sufficiente.