Natura statica o dinamica?

Nell’interrogarsi sulla natura del tempo, è di fondamentale importanza rendere esplicito l’approccio metodologico che si intende seguire. Poiché del tempo, come dell’essere di aristotelica memoria, si può parlare in molti modi, i risultati della nostra indagine verranno a dipendere in modo essenziale dall’approccio filosofico che si intende adottare. Per un filosofo analitico, interrogarsi sulla natura del tempo significa essenzialmente interrogarsi sulla natura del linguaggio temporale. Se si ritiene invece che il mistero del tempo non sia nascosto solo nelle strutture linguistiche che utilizziamo per parlare di esso, un’altra opzione è quella di privilegiare il metodo fenomenologico di derivazione husserliana, o l’analitica dell’esistenza di Heidegger, o le filosofie contemporanee che si richiamano in vario modo a questi due maestri. Ancora differente è la rotta di coloro che con titanica energia optano per una ricognizione nello sconfinato e variegato regno dell’empiria, con il prevedibile risultato di partire con una nozione di tempo apparentemente unitaria, e approdare alla fine del viaggio con una frammentazione in tanti “tempi” quante sono le scienze naturali e sociali, dal tempo della fisica a quello della biologia, dal tempo della psicologia a quello della storia e della sociologia, fino ad arrivare al tempo della finzione letteraria.

Di quale tempo dobbiamo allora indagare la natura? Dobbiamo forse concludere che l’interrogarsi sulla natura del tempo sia un problema mal posto, per il semplice fatto che non esiste alcun concetto di tempo le cui caratteristiche essenziali si ritrovino immutate in ognuna di queste prospettive filosofiche? Nell’intrico di strade che si è doverosamente segnalato, è per fortuna possibile rintracciarne una metodologicamente assai significativa, che illumina e percorre tutte le altre, e che è stata proposta in ambito analitico. Pur postulando l’unità fondamentale del concetto di tempo, tale strada ci conduce a riflettere sulle conseguenze metafisiche generate da due diverse modalità di discriminazione degli eventi nel tempo: il modo statico del prima e poi – che specifica rapporti tra eventi che sono immutabili in quanto indipendenti dalla posizione temporale del parlante – e il modo dinamico, che invoca invece la distinzione tra passato, presente e futuro, e che serve a specificare proprio tale mutevole posizione nei confronti degli eventi a cui ci riferiamo. La differenza tra tali due modi di discriminare gli eventi nel tempo è presto chiarita. Un evento M che avverrà domani e al quale ci riferiamo oggi, sarà futuro solo per un giorno, dato che domani sarà presente, e dopodomani passato. La dinamicità delle distinzioni temporali in questione consiste allora nel fatto che non possiamo ripetere domani, salva veritate, che quel particolare evento M è futuro. Al contrario, se è vero affermare che “l’evento M è prima di N”, questo enunciato sarà sempre vero nel futuro, è vero nell’istante presente, ed è sempre stato vero nel passato. Di qui la staticità delle discriminazioni temporali che fanno riferimento alla simultaneità, alla precedenza e alla successione temporale.

Tre questioni sulla natura del tempo

Tale distinzione ci aiuta a circoscrivere in modo chiaro alcune tradizionali questioni legate all’enigma della natura del tempo. In primis, c’è il problema della realtà del tempo, strettamente legato a quello della sua natura: che cos’è dunque il tempo, si chiedeva già Agostino nella Confessioni? La sua risposta era, più o meno, “se non me lo chiedi, lo so; se me lo chiedi, non lo so più”. Un modo per superare l’empasse segnalata da Agostino consiste nel cercare di stabilire se il tempo sia parte dell’universo naturale, oppure sia uno schema necessariamente presupposto dalla mente umana allo scopo di organizzare l’esperienza. Da questo punto di vista, la questione filosofica centrale intorno al tempo è appunto quella di appurare se esso sia una proprietà del mondo fisico del tutto indipendente dall’esistenza di esseri coscienti, o se invece sia solo un qualcosa di puramente psicologico e “interno”, che noi proiettiamo sul mondo “esterno”.

Il problema se la natura del tempo sia (anche) fisica o solo mentale riguarda da vicino anche due grandi questioni della filosofia del tempo, ovvero la questione del divenire temporale, che coinvolge la natura della differenza tra passato e futuro, e la questione dell’irreversibilità del tempo, che coinvolge la natura della differenza tra prima e poi. Coloro che difendono l’oggettività del divenire o dello scorrere del tempo sostengono che gli eventi futuri siano irreali e che divengano reali solo nel presente per poi recedere sempre più nel passato. Anche in quest’ambito di problemi, la difficoltà concettuale maggiore è quella di stabilire se un evento possa essere presente, passato e futuro in modo indipendente dalla mente, oppure se, al contrario, la distinzione tra passato e futuro non abbia radici ontologiche, e dipenda solo dall’esistenza di esseri coscienti dotati di memoria.

Il problema dell’irreversibilità o asimmetria del tempo riguarda invece l’oggettività o indipendenza dalla mente della differenza tra ‘prima’ e ‘poi’. Alcuni tipi di eventi sono in genere sempre seguiti e mai preceduti da altri, nel senso che il loro l’ordine non può mai essere rovesciato. Mentre una goccia di latte nel caffé tende sempre a mischiarsi con esso, noi non osserviamo mai il latte separarsi spontaneamente dal caffé in una miscela preventivamente costituita, malgrado le leggi di natura che regolano le interazioni molecolari dei due liquidi siano compatibili con entrambi i processi. Poiché nel problema dell’irreversibilità del tempo la difficoltà principale consiste nello spiegare l’origine di questa asimmetria osservata su un sfondo costituito da leggi di natura temporalmente simmetriche, alcuni fisici e filosofi hanno avanzato l’ipotesi che anche in questo caso la spiegazione abbia a che fare con la mente umana.

Il tempo come sostanza o come relazione

Poiché in tutte e tre le questioni che abbiamo introdotto il problema cruciale è quello di stabilire se il tempo abbia una natura solo mentale o anche fisica, non si può non osservare che tale problema è solo un caso particolare di quella bipartizione del mondo tra qualità primarie e qualità secondarie con cui iniziò la scienza moderna. Dal punto di vista di coloro che ad esso negano una qualunque realtà extramentale, il tempo sarebbe allora perfettamente analogo ai colori. Fisicamente o oggettivamente, i colori sono radiazioni elettromagnetiche caratterizzate da una certa lunghezza d’onda. Soggettivamente invece, il loro status ontologico è stato spesso spiegato, da Galileo in poi, attraverso la nozione di qualità secondaria. Come noto, tali qualità hanno delle “basi” fisiche negli oggetti – nel nostro esempio, nella disposizione delle superfici dei corpi a riflettere radiazioni di lunghezza d’onda data – ma sono però, in senso rilevante, costituite dalla mente, essendo frutto dell’incontro o dell’interazione tra le qualità primarie degli oggetti, che appartengono a questi ultimi indipendentemente da noi, e la mente stessa. Così come gli oggetti fisicamente intesi non risultano né colorati né dolci né profumati, sulla scorta di questa posizione filosofica anche il tempo potrebbe essere – al pari dei colori, dei sapori, degli odori e dei suoni- una specie di qualità secondaria, prodotta dalla mente grazie all’incontro con una qualche proprietà atemporale o non temporale del mondo fisico.

In filosofia come in ogni disciplina empirica, un buon test per la sensatezza di un problema è che quest’ultimo, se ben posto, deve contenere qualche indicazione sia sulla strada da percorrere per risolverlo, sia sulle caratteristiche di una sua possibile soluzione. Nel nostro caso però, nell’ipotesi in cui il tempo fosse reale, non è ancora chiaro cosa significherebbe attribuirgli una realtà extramentale. Né, nel caso in cui il tempo fosse irreale, si possiede una minima idea su quale potrebbe essere la proprietà atemporale del mondo che costituisce la base fisica della nostra temporalizzazione dell’esperienza, nello stesso senso in cui le radiazioni elettromagnetiche di una certa lunghezza d’onda sono la base fisica del nostro interpretare il mondo come colorato.

In altre parole, supponendo che si riesca ad appurare che il tempo esiste indipendentemente da noi esseri senzienti, ci troveremmo di fronte al problema di come esso esiste, ovvero se esiste al modo di una sostanza, di una proprietà, di una quantità, o di una relazione. Tali dibattiti non solo caratterizzarono la nascita della scienza e della filosofia moderne, ma ebbero anche il merito di porre per la prima volta in maniera chiara la questione della natura del tempo all’interno del discorso scientifico. Qui basterà ricordare che se Newton e il suo seguace Clarke difendevano l’idea che spazio e tempo esistevano indipendentemente dagli oggetti e gli eventi in esso collocati, Leibniz li considerava invece alla stregua di pure relazioni, di coesistenza e di successione rispettivamente.

Seguire la complicata discussione sul sostanzialismo o relazionismo fino ai nostri giorni implicherebbe un excursus in teorie fisiche assai complesse, come quella della relatività generale e della gravità quantistica. Per fortuna, allo scopo di chiarire l’enigma della natura del tempo, è possibile aggirare queste difficoltà, attenendosi all’idea guida che dalla natura delle proprietà del tempo si possa concludere qualcosa sulla natura del tempo stesso. Se pur infatti potessimo risolvere il tradizionale dibattito sostanzialismo-relazionismo concludendo per la natura relazionale del tempo, con ciò non avremmo ancora chiarito se il tempo inteso come ‘relazione’ sopravvenga solo su proprietà intrinseche di eventi fisici, o coinvolga invece inevitabilmente una ingrediente psicologico o mentale. In una parola, se non sapessimo qualcosa in più dei relata delle relazioni temporali ‘prima di’ o ‘è futuro al tempo t’- relazioni da cui il tempo è costituito – il nostro problema sulla natura del tempo non sarebbe ancora risolto.

È proprio il tentativo di chiarire la natura del tempo attraverso le sue proprietà che rende preziosa la distinzione tra tempo statico e tempo dinamico sopra accennata. Per comprendere le proprietà del tempo, è importante stabilire se esso possa genuinamente scorrere o passare, come il senso comune e il linguaggio tendono a farci credere, oppure abbia una natura statica, costituita essenzialmente dalle relazioni prima e poi. Contrariamente a quanto affermano McTaggart (1908) e Gödel (1949) se si potesse stabilire che due eventi sono legati dalla relazione temporale prima di in modo indipendente da qualunque osservatore cosciente, avremmo con ciò stabilito la realtà del tempo, anche se il divenire avesse solo a che fare con il nostro modo di esperire il mondo. Poiché è logicamente possibile affermare che il divenire sia dipendente dalla mente e sostenere al tempo stesso la realtà delle relazioni statiche, se nel mondo fisico gli eventi e i processi si succedono oggettivamente in un ordine temporale che è indipendente dall’esistenza di osservatori coscienti, non si vede quale argomento potrebbe costringerci a negare la realtà del tempo.

Si può allora stipulare che difendere l’irrealtà del tempo ci impegni ad affermare che sia la distinzione tra prima e dopo che quella tra passato e futuro sono dipendenti dalla mente. Il tempo tout court dovrebbe essere inteso come irreale solo se risultassero soggettivi entrambi i suoi aspetti, ovvero sia quello dinamico che quello statico. La credenza che uno solo di tale due aspetti del tempo sia indipendente dalla mente deve essere invece considerata sufficiente a conferire realtà al tempo tout court.(1) Questo modo di porre la prima questione sulla natura del tempo sembra fare di esso piuttosto una proprietà o una relazione esemplificabile dal mondo fisico che una sostanza. Si noti però che ipotizzando che una modalità di esistenza di tipo relazionale basti alla realtà del tempo, non si sta con ciò riducendo le determinazioni temporali dinamiche a relazioni statiche tra eventi e istanti temporali. In altre parole, non si sta affermando che “E è futuro all’istante t” sia equivalente in significato a “E è dopo t”. Per il teorico dinamico del tempo, la prima asserzione comporta un impegno ontologico (riguardo all’irrealtà di E a t) che la seconda non contempla affatto, mentre è importante tener presente che per il teorico statico del tempo – che ritiene che il futuro sia reale proprio come il passato – le due asserzioni hanno lo stessa portata ontologica.

A questo punto, rimane da chiederci se la strada più breve per cercare di chiarire il problema della natura del tempo sia quella di partire dalla realtà della distinzione tra passato e futuro o da quella tra prima e poi. Intanto c’è da considerare che sulla questione della realtà del divenire, è assai plausibile ritenere che il responso delle teorie fisiche sia negativo. Indipendentemente da considerazioni relativistiche, la fisica infatti non ha bisogno di presupporre l’esistenza di un istante privilegiato, il presente, che separi dinamicamente ciò che è definito (il passato) da ciò che è ancora irreale (il futuro). Ci troveremmo allora comunque costretti a dover passare all’analisi della realtà dell’irreversibilità del tempo (la freccia del tempo). Inoltre, mentre il problema della dipendenza dalla mente delle determinazioni dinamiche, e dunque della realtà del futuro, è stato già discusso (Dorato 1997), la questione della realtà delle relazioni statiche è rimasta tuttora poco esplorata. Infine, il problema del divenire chiamerebbe in causa teorie fisiche quali quella della relatività che non possiamo certo introdurre in questa sede.

Affronteremo perciò il problema della realtà del tempo considerando esclusivamente l’oggettività della relazione ‘prima di’, tenendo presente anzitutto le motivazioni che storicamente possono aver condotto a negarla, e che hanno a che fare soprattutto con il fatto che il tempo, come affermava Kant, è la forma del senso interno. In base a quanto detto sopra, l’indipendenza dalla mente della irreversibilità del tempo sarebbe in ogni caso sufficiente a conferire realtà a quest’ultimo.

Il tempo come forma del senso interno

Malgrado nel linguaggio ordinario si dica a volte che avvertiamo in modo più o meno rapido il passaggio del tempo, il tempo in sé, assai più dello spazio, appare al senso comune come una non-cosa o un non-ente. Noi infatti non osserviamo direttamente il tempo o le sue proprietà come osserviamo un albero o un tavolo: il tempo non può essere toccato, e ovviamente non emette né suoni né odori. Apparendo privo di proprietà percepibili, al senso comune esso appare anche privo di poteri causali: visto che il tempo ‘non fa nulla’, perché non considerarlo anch’esso come un nulla, al pari dello spazio vuoto degli atomisti antichi?

In effetti, in un eventuale libro sulla storia del concetto di tempo nel pensiero occidentale- un libro che ancora non è stato scritto e che forse, data la complessità dell’argomento, non si scriverà mai (2) – si dovrebbe certamente mettere in risalto una perdurante tendenza a confinare il tempo alla mente umana e a considerarlo dunque, in base alla nostra stipulazione, come irreale. Da Parmenide a Platone, da Plotino ad Agostino, da Cartesio a Spinoza, arrivando fino agli idealisti tedeschi e al logico del Novecento Kurt Gödel, la vera realtà (la Realtà) è stata vista come atemporale o sottratta al cangiamento, una tesi che almeno in parte può essere spiegata dal desiderio profondamente umano di negare il mutamento, la decadenza e la morte.

Il tempo, insieme allo spazio, costituisce uno dei principali, se non il principale, criterio di realtà di un oggetto o di un evento concreto. La differenza tra un entità fittizia, come Babbo Natale o le guerre stellari di un romanzo di fantascienza e la mia scrivania o la seconda guerra mondiale, è che le prime, a differenza delle seconde, non sono né nello spazio né nel tempo. Lasciando da parte il problema della esistenza dei numeri – che potrebbe coinvolgere entità reali ma non spazio-temporalmente estese, e dunque astratte – si può anzi affermare che un oggetto o un evento concreto X è reale se e solo se occupa una porzione di spazio e di tempo. Tenendo presenti questi presupposti, sorge spontaneo un interrogativo, che nella letteratura sterminata sul tempo è stranamente passato sotto silenzio: come può un non-evento o una non-cosa come il tempo costituire il più importante criterio di realtà di eventi e cose senza essere reale esso stesso?

Un’importante risposta (antirealistica) a questa paradossale domanda venne data da Immanuel Kant, il quale, nella Critica della Ragion Pura, ipotizzò che spazio e tempo fossero forme intuitive a priori, da noi necessariamente presupposte per organizzare concettualmente le sensazioni del mondo esterno e interno. Anche nell’ottica criticista kantiana però, il tempo applicato al mondo (alle cose) in sé non è nulla, ed esso può essere considerato reale solo se riferito ai fenomeni, cioè alle cose come appaiono ad esseri senzienti quali noi siamo, dotati di categorie pure a priori. È la famosa formula kantiana per cui il tempo è empiricamente reale ma trascendentalmente ideale.

Curiosamente, rispetto alla res extensa, nella res cogitans la gerarchia tra spazio e tempo è completamente rovesciata. Sia per Cartesio che per Kant, il tempo nel mondo fisico in sé non esiste. Se per Cartesio l’estensione è l’unica proprietà essenziale di un corpo materiale, e per Kant il concetto della prima è analiticamente contenuto in quello del secondo, all’interno della mente lo spazio è invece quasi completamente assente, ed è il tempo a giocare un ruolo essenziale. L’ordinamento degli eventi della mente – la quale nella filosofia di Cartesio è rappresentabile come un punto inesteso – è, come, aveva compreso Kant, di natura temporale. Ogni nostra esperienza interna o mentale è nel tempo ma non, almeno intuitivamente, nello spazio: mentre gli eventi mentali intuitivamente non occupano spazio e – con la dovuta eccezione delle immagini mentali – non hanno proprietà spaziali di sorta, essi sono certamente nel tempo. Non ha senso dire che il mio intenso mal di testa in questo momento è sopra o a sinistra dell’immagine mentale di una mela, ma l’uno deve essere dopo l’altro o simultaneo con l’altro.

È questa la ragione principale della tesi kantiana per cui il tempo, organizzando sia gli eventi esterni (che devono essere comunque mediati dalla soggettività) che quelli interni, possiede una specie di primato rispetto allo spazio, in quanto “è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale”. Esso è la forma del senso interno perché riguarda “l’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno”, ed è dunque strettamente legato alla nostra identità. La sintesi tra due diverse esperienze temporalmente distanti ma unificate in un’unica rappresentazione è infatti alla base della costruzione del sé di cui parlano i filosofi dell’identità personale (Nozick 1981). È stato per esempio osservato che mentre possiamo spostarci da un luogo o da una casa all’altra senza mutare identità, il cambiamento di tempo sembra più legato alla nostra personalità: noi non siamo certo uguali da fanciulli a da adulti (Agazzi 1995, p.22). È forse per questo che il poeta afferma “El tiempo es la sustancia de que estoy hecho. El tiempo es un río que me arrebata, pero yo soy el río; es un tigre que me destroza, pero yo soy el tigre; es un fuego que me consume, pero yo soy el fuego”. (Borges 1984, p.1089). (3)

In sintesi, da una parte l’influenza della tesi kantiana – che sottolinea la stretta connessione tra tempo, vita mentale e identità del sé – e dall’altra la possibilità di descrivere il mondo fisico facendo a meno della nozione dinamica di ‘essere presente’, sono sicuramente tra le ragioni più importanti che hanno spinto molti filosofi a negare la realtà del tempo tout court. Per approfondire la valutazione del fenomenismo di Kant, che costituisce un argomento importante contro la realtà (trascendentale) del tempo, è necessario cercare di comprendere quale possa essere il fondamento oggettivo dei giudizi che implicano le relazioni temporali statiche ‘prima di’ e ‘dopo di’ nell’ambito della vexata questio sulla irreversibilità (o direzione) del tempo.

La successione temporale psicologica e quella fisica

Si noti anzitutto che quando percepiamo due eventi come temporalmente successivi, noi attribuiamo l’ordine temporale delle percezioni all’ordine degli eventi fisici percepiti. Come ha notato Hugh Mellor (1981), in genere questo non accade con le proprietà delle altre nostre percezioni nel loro rapporto con le proprietà degli oggetti percepiti. La percezione di un oggetto quadrato non è quadrata, né la percezione di un oggetto giallo è gialla, ma l’ordine temporale percepito è, nella stragrande maggioranza dei casi, l’ordine temporale degli eventi percepiti.

La qualificazione “stragrande maggioranza dei casi” serve a parare possibili obiezioni alla tesi, che qui si sostiene, in base alla quale gli eventi fisici e quelli mentali condividono lo stesso ordine temporale. Eccezioni a tale tesi, discusse in un recente articolo di Vicario (1997), non sembrano intaccare l’ovvia constatazione che se ci fosse una frequente discrepanza tra l’ordine temporale degli eventi fisici e quello degli eventi mentali, la nostra sopravvivenza biologica sarebbe impossibile: se una tigre si avvicina a noi piuttosto che allontanarsi, e noi non potessimo percepire tale processo fisico nell’ordine in cui avviene, è facile immaginarsi quale sarebbe stata la sorte della nostra specie.

In definitiva, le tesi di coloro che, come Vicario, sottolineano le diversità del tempo psicologico rispetto a quello fisico, sembrano avanzate più per giustificare l’autonomia del primo dal secondo, che per profonde esigenze concettuali. Separando le proprietà statiche da quelle dinamiche del tempo, è legittimo sostenere sia (1) che solo gli eventi mentali (e non quelli fisici) esemplificano le proprietà dinamiche dell’essere passato, presente e futuro, sia (2) che gli eventi fisici e quelli mentali condividono il loro ordine temporale perché sono, e non possono che essere, causalmente connessi. Infatti, il suono di un campanello che precede l’abbaiare di un cane, è, nella stragrande maggioranza dei casi, dato da, condiviso da, o addirittura identico a, l’ordine temporale delle percezioni di questi due eventi. Tali percezioni, a differenza degli eventi fisici che le hanno prodotte, sono eventi o esperienze mentali a tutti gli effetti, e forniscono in effetti solo la condizione epistemica (o conoscitiva) necessaria per attribuire un ordine temporale agli eventi fisici percepiti. Esse sono però caratterizzate dall’esemplificare la stessa relazione statica (prima di, simultaneamente a, o dopo di) che viene esemplificata dagli eventi fisici.

La priorità epistemologica della relazione temporale percepita ‘prima di’ è data dal fatto che se io non percepisco a prima di b, e in più non ricordo di aver visto o udito a quando vedo od odo b, non posso giudicare i due eventi fisici in questione come successivi (Mellor 1981, cap.9). Qui non si tratta solo di mettere in luce il ruolo della memoria a breve termine, e probabilmente della causalità (operante nel concetto di traccia mnestica), nel determinare la nostra percezione dell’ordine temporale dei fenomeni. Più importante ancora ai nostri scopi è sottolineare il motivo fondamentale per il quale si è spesso ritenuto che il tempo (inteso come ordine o successione) fosse un qualcosa di puramente soggettivo, o irreale nel senso visto. Storicamente, è spesso avvenuto che la condizione epistemicamente necessaria per poter attribuire un ordine agli eventi fisici sia stata confusa con il fatto che quegli eventi avessero un ordine temporale oggettivo e indipendente dalla mente. È quindi della massima importanza tener presente che la condizione epistemica per poter attribuire un ordine temporale agli eventi (il poter percepire gli eventi uno prima dell’altro e aver traccia del primo quando percepiamo il secondo) e il problema se i fenomeni fisici percepiti abbiano o meno un ordine temporale oggettivo sono da tenersi rigorosamente distinti.

Ciò che, come direbbe Kant, “rende possibile” l’attribuzione di un ordine temporale agli eventi fisici, è sicuramente il fatto che qualcuno li percepisca (lo si chiami F1). Ma la questione se gli eventi abbiano o meno quell’ordine in modo oggettivo (indipendente dalla mente) è un fatto ulteriore (F2) il cui darsi o meno è indipendente dall’esistenza di esseri senzienti. Tale fatto – che consiste in pratica nello stabilire se c’è qualcosa nel mondo fisico in sé che fondi la nostra percezione dell’ordine temporale, ovvero che la spieghi costituendo una base di sopravvenienza o di riduzione – non può essere stabilito con l’indagine trascendentale, ma deve essere accertato con l’indagine empirica, in particolare con la fisica, con la neurofisiologia e le scienze cognitive in generale.

Non è implausibile supporre che questa distinzione tra condizioni epistemiche (F1) e fatti oggettivi (F2), che è davvero cruciale per il problema della realtà del tempo, possa essere stato frainteso persino da Kant e dai suoi seguaci contemporanei. Se, tanto per fare un esempio, ogniqualvolta noi percepiamo che un evento fisico a è prima di un altro evento fisico b in un sistema isolato, si ha che l’entropia associata ad a è minore dell’entropia associata a b, allora si potrebbe senz’altro concludere che l’ordine temporale dei due eventi è oggettivo (indipendente dalla mente). A meno che, ovviamente, non si voglia sostenere che la crescita dell’entropia da a a b sia a sua volta un fenomeno solo dovuto alla presenza di essere senzienti che percepiscano quegli eventi. Ma questo, come è evidente, è un problema del tutto diverso da quello precedente, e che ha a che fare con la possibilità e la plausibilità (i) di dare in generale un fondamento oggettivo alla crescita o alla diminuzione dell’entropia nel tempo (Denbigh and Denbigh 1985, Savitt 1995, Sklar 1995); (ii) di dare un fondamento oggettivo ad altri fenomeni fisici de facto se non nomologicamente irreversibili, nel caso in cui l’entropia non possa essere la base riduttiva o di sopravvenienza della relazione percepita e soggettiva ‘prima di’; (iii) di ridurre la relazione percepita ‘prima di’ a qualche processo fisico de facto o nomologicamente irreversibile.

Il problema che rimane da indagare per stabilire se l’ordine temporale di due eventi fisici sia oggettivo, e dunque il tempo sia reale nel senso detto, viene dunque “ridotto” alle tre questioni di cui sopra. Ma dovrebbe essere evidente che tali questioni, che nella filosofia della fisica contemporanea sono ancora assai aperte e dibattute, ci impongono di riesaminare la soluzione che al problema diede Kant. Per far progressi su una questione ontologica come quella della realtà del tempo, diviene allora necessario studiare seriamente il complesso di questioni che hanno a che fare con la freccia del tempo, ovvero con il problema di spiegare l’ordine di dipendenza dei vari fenomeni irreversibili che marcano il nostro senso di direzionalità del tempo.

Tra le varie frecce del tempo, o fenomeni fisici il cui ordine sembra irreversibile, ne indichiamo quattro: (1) il fatto che l’entropia cresce nella vasta maggioranza dei sistemi chiusi, (2) che le onde elettromagnetiche in generale divergono da un punto di emissione iniziale, ma non convergono armoniosamente verso tale centro, (3) che l’universo è finora in espansione e (4) che alcune particelle presenti nelle interazioni deboli, dette kaoni, decadono in modo da violare la simmetria temporale.

Conclusione

La connessione di tali fenomeni con la freccia psicologica del tempo non è ancora nota, ma non è implausibile sostenere che ogniqualvolta noi percepiamo un evento come successivo a un altro, una delle quattro frecce fisiche si manifesti tra gli eventi fisici percepiti. Ciò malgrado, il fatto che non sia ancora disponibile una teoria che spieghi e metta in relazione tutti questi fenomeni, non depone a sfavore di una concezione realistica del tempo nel senso detto. Come si è accennato sopra, è certamente vero che l’irreversibilità fisica in questione in (1)-(3) è solo de facto, e non nomologica. Questo in pratica significa che l’irreversibilità dipende da condizioni iniziali accidentali e non da leggi temporalmente asimmetriche, il che comporta che l’inversione temporale di un tipo di processo normalmente osservato, simbolizzato con c—b—a, per quanto estremamente improbabile, è consentita dalle leggi di natura, tanto quanto è consentito il processo normalmente osservato a—b—c. Per esempio, la diminuzione dell’entropia o la convergenza delle onde nella direzione del tempo che va dal passato-futuro è improbabile, ma non è assolutamente proibita dalle leggi di natura.

Si tenga però presente che se, oltre al divenire temporale, anche la successione temporale fosse soggettiva, il mutamento, comunque definito, risulterebbe anch’esso dipendente dalla mente. Affinché il mutamento sia reale, il tempo deve esserlo, dato che l’oggettività del primo presuppone quella del secondo. Se il mondo in sé non mutasse, e il mutamento fosse un fenomeno puramente mentale, dovremmo almeno ammettere che c’è un mutamento in ciò che appare, che non avrebbe alcuna possibile spiegazioni in termini fisici. Solo un radicale e implausibile dualismo tra mente e mondo fisico giustificherebbe una tale ipotesi.

La presenza di tali fenomeni fisici macroscopici irreversibili è quindi sufficiente a conferire oggettività alla percezione soggettiva dell’ordine temporale, dato che sembra assai implausibile supporre che, per esempio, il fatto che la nascita della vita sulla Terra preceda la comparsa della specie homo sapiens dipenda dal nostro possedere una mente o un linguaggio, se non nel senso banale per cui qualunque fatto scientifico, come l’esplosione di una stella, per poter essere descritto o conosciuto, deve essere prima rappresentato e reso significativo da qualche essere pensante e parlante. Tenendo presente la separazione tra condizioni epistemiche per asserire un fatto e il fatto asserito, è possibile distinguere tra il darsi di una percezione di una successione temporale tra due stati di un sistema fisico, legati da una grandezza crescente come l’entropia, e l’essere quei due stati legati da una relazione fisica irreversibile, è esemplificato dal sistema indipendentemente dalla presenza di un osservatore. È in questo senso che possiamo concludere che il tempo è reale, dato che esso lega insieme il mondo della mente e quello della materia, imponendo a entrambi lo stesso ordine oggettivo.

Bibliografia

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Vicario, G. (1997) , “Il tempo in psicologia”, Le Scienze, n. 347, pp. 43-51.

Note

1) In seguito a questa stipulazione, ‘reale’ usato in funzione aggettivale rispetto al tempo equivale a ‘indipendente dalla mente’, un’equivalenza che comunque non deve essere interpretata come se il lato soggettivo o mentale di tutto ciò che esiste debba essere considerato inesistente.

2) Per la storia del concetto di tempo nella filosofia antica, si veda Sorabji (1983).

3) “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”.

Una diversa versione di questo articolo èapparsa in MONTAG vol.4, Fahrenheit 451, Roma, 1998, con il titolo “La natura dellanatura”, pp.99-113.

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