Non bruciate quei rifiuti

Con un’azione spettacolare, nei giorni scorsi è partita in Italia la campagna di Greenpeace contro gli inceneritori di rifiuti. La mattina dello scorso 3 luglio, cinque arrampicatori sportivi sono saliti sul camino dell’impianto di Como e hanno srotolato uno striscione con la scritta “Inceneritossici”. Sotto accusa non è solo l’impianto della città lombarda ma anche tutti gli altri 211 (secondo una stima di Greenpeace) disseminati in Italia. Analisi commissionate dall’associazione ambientalista a un laboratorio tedesco, l’MPU GmbH (Meß- und Prüfstelle Technischer Umweltschutz), avrebbero rilevato la presenza di diossina e furani (composti organici del cloro) nel latte vaccino di alcune stalle di Como, Ferrara e Bologna. Inoltre, metalli pesanti come piombo, cadmio e cromo sono stati trovati a Modena, Reggio Emilia, Pisa, Vicenza e Milano. In particolare, la concentrazione di piombo rilevata sarebbe dalle due alle dieci volte superiore al limite normativo della Comunità Europea, mentre nel latte comasco i livelli di diossina sarebbero quasi al limite del consentito.“Il problema è che queste sostanze sono bioaccumulabili, ossia si sedimentano negli organismi, nel suolo, e non vengono smaltite”, dice Vittoria Polidori, responsabile della campagna di Greenpeace, “in gergo vengono dette Cop, ossia composti organici persistenti. La loro persistenza fa sì che entrino nel ciclo della catena alimentare, passando dal suolo ai vegetali, agli animali e, infine, a noi”. I danni alla salute, dunque, se non nell’immediato, potrebbero arrivare con il tempo. “In diverse parti del mondo”, prosegue Polidori, “si sono riscontrate gravi patologie nella popolazione residente vicino agli termodistruttori, da tumori a malformazioni congenite, spesso dovute alla combustione di sostanze plastiche”. Che non solo costituiscono buona parte dei rifiuti da smaltire ma vengono utilizzate anche come carburanti per i bruciatori degli impianti. Come derivati del petrolio, infatti, questi materiali hanno un alto rendimento energetico. E così succede pure che contenitori e oggetti di plastica accuratamente selezionati dai cittadini invece di essere riciclati finiscono ad alimentare gli inceneritori. L’obiettivo di Greenpeace è l’eliminazione progressiva di questo tipo di impianti entro il 2020. Per gli ambientalisti, bruciare la spazzatura non è una soluzione valida. Prima di tutto non scoraggia la produzione di rifiuti e poi, causando danni ambientali e sanitari, è una pratica contraria a ogni politica di sviluppo sostenibile. “Se si provvedesse sistematicamente alla raccolta differenziata se ne potrebbe fare benissimo a meno”, conclude Polidori. L’allarme di Greenpeace non cade nel vuoto. Molti scienziati condividono le preoccupazioni degli ambientalisti, anche se non è sempre possibile stabilire un nesso di causa effetto tra l’insorgenza di una patologia e l’esposizione alle emissioni di un inceneritore. Proprio per far fronte alla “povertà” di letteratura scientifica in questo ambito, sta partendo un progetto di ricerca a livello nazionale per il monitoraggio dell’impatto sanitario degli inceneritori. “Sia in Italia che all’estero abbiamo ancora inceneritori di vecchia generazione”, spiega Pietro Comba epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità e coordinatore del progetto, “alcuni dei quali in zone abitate. Le persone esposte alle diossine e ai metalli pesanti corrono il rischio di sviluppare linfonodi non-Hodgkin, tumori alla laringe e danni all’apparato riproduttivo. In particolare si sono registrati casi di malformazioni congenite come l’inversione di sesso, che di per sé non è dannosa, ma che rispecchia l’effettivo pericolo degli impianti di vecchia concezione”. Uno dei punti di forza dell’iniziativa sta nell’unire le forze di diversi laboratori di ricerca. “Facendo convergere i dati di Roma, Pisa, Firenze e Mantova”, conclude Comba, “potremo mettere in comune gli strumenti, effettuare una discussione critica e, se sarà possibile, procedere con la sperimentazione”.

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