“Non lasciamo che la scienza muoia”

Perché comunicare la scienza? Perché in mancanza di un dialogo vero fra la comunità scientifica e i cittadini, la scienza può morire. E’ questa la risposta di Stefano Fantoni, direttore e fondatore del Master in comunicazione della scienza della Sissa di Trieste, premiato dall’Unesco con il prestigioso Kalinga Prize. Il riconoscimento (una medaglia d’argento e un assegno di duemila sterline, poco più di sei milioni di lire), istituito nel 1952, viene assegnato annualmente a una personalità che si è distinta nella diffusione della cultura scientifica. Nel passato l’hanno ricevuto scienziati e divulgatori del calibro di Louis de Broglie, George Gamow, Bertrand Russell, Konrad Lorenz, Arthur Clarke. L’unico precedente italiano è Piero Angela, vincitore del Kalinga Prize nel 1993.

La Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) vede così riconosciuta a livello internazionale un’attività iniziata nove anni fa con l’obiettivo di formare una nuova generazione di giornalisti e divulgatori scientifici in Italia. Stefano Fantoni, scienziato di formazione, uno dei massimi esperti di fisica delle basse temperature, ha ricevuto il premio Kalinga per essersi battuto in favore di un dialogo fra la comunità scientifica e le altre componenti della società. “Non basta diffondere i contenuti della scienza e le scoperte eclatanti”, ha dichiarato Fantoni nel discorso di ringraziamento. “Bisogna diffondere la cultura scientifica, le sue metodologie, rompere il pregiudizio di una scienza infallibile, irraggiungibile e pura. La forza del pensiero scientifico, e della cultura in generale, è proprio la sua mancanza di purezza”.

Professor Fantoni, diffondere la cultura scientifica è un optional o una necessità?

“E’ una necessità. Divulgare la scienza non è più un’opzione filantropica come in passato, ma un’esigenza di democrazia, un bisogno profondo della nostra società. Le società moderne percepiscono chiaramente la rilevanza dell’innovazione tecnologica nei processi di sviluppo. Eventi recenti, come le controversie sulle biotecnologie e sul riscaldamento globale, o il caso della mucca pazza, dimostrano la necessità di un’interazione fra la comunità scientifica e la società, attraverso un dialogo che non sia soltanto unidirezionale”.

Quali responsabilità hanno gli scienziati?

“Oggi esiste un atteggiamento ambivalente nei confronti della scienza: da un lato si assiste al proliferare di movimenti antiscientisti, dall’altro permane la visione di una scienza pura e infallibile. Entrambi i fenomeni alimentano incomprensioni e sospetti, che talvolta generano una vera e propria paura nei confronti della scienza. Uno dei motivi per cui questo accade è che troppo spesso gli scienziati si limitano a raccontare gli eventi, le grandi scoperte, e non i processi che le hanno determinate”.

Con quali rischi?

“La società avverte un avvicinamento eccessivo fra scienza e tecnologia. Il timore è che si finisca per privilegiare quelle ricerche che promettono applicazioni utili e immediate. Il rischio esiste e va affrontato proteggendo la ricerca di base, che è il bacino della scienza e rappresenta una ricchezza per tutti. Dobbiamo urlarlo, perché altrimenti la scienza muore”.

Cosa manca ancora alla comunicazione della scienza, in Italia?

“Manca uno status, il riconoscimento a livello nazionale. E manca la massa critica, cioè un numero adeguato di divulgatori e giornalisti scientifici nelle redazioni. E’ una carenza delle università: la figura del divulgatore dovrebbe essere prevista dai corsi di laurea”.

Che cosa le è rimasto impresso della premiazione?

“Nel corso della lunga cerimonia, mi ha colpito il riconoscimento che l’Istituto Pasteur ha dato a una donna iraniana, Sima Rafati Seyedi Yazdi, per le sue ricerche sulle malattie virali. Un segno importante, soprattutto in un momento difficile come quello che stiamo vivendo”.

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