Nubi su Buenos Aires

La Russia ha detto sì e il protocollo di Kyoto, approvato ormai sei anni fa ma mai entrato in vigore, diventa legge. Dal 16 febbraio 2005, i 128 paesi che hanno firmato il trattato, dovranno impegnarsi concretamente a ridurre le emissioni dei gas a effetto serra secondo i limiti fissati. Nel segno di questa svolta storica si è aperto il decimo appuntamento della Cop 10, la Conferenza delle parti in corso a Buenos Aires dal 6 al 17 dicembre, a cui partecipano gli stati membri della “Convenzione quadro sui cambiamenti climatici” delle Nazioni Unite. Con la ratifica della Russia si è raggiunto il quorum necessario perché gli accordi presi nel 1997, che richiedevano l’adesione di almeno 55 paesi, responsabili del 55 per cento delle emissioni di gas dei paesi industrializzati, diventassero vincolanti. Dalle parole, quindi, si passa ai fatti: entro il 2008-2012 i paesi firmatari devono ridurre mediamente del 5,2 per cento le emissioni di gas inquinanti rispetto al 1990. Una soglia che non risolve il preoccupante problema del riscaldamento globale, ma che rappresenta la prima ammissione di responsabilità e la prima dichiarazione d’impegno dei governi nel tentativo di arginare l’effetto antropico sul pianeta.Sulla carta sembrerebbe tempo di cantar vittoria, eppure la situazione è meno rosea delle apparenze. Dal protocollo di Kyoto restano fuori due giganti, Stati Uniti e Australia, i paesi con le più alte emissioni al mondo, non disposti a rinunciare ai profitti di un’economia che punta tutto su carbone e petrolio, in nome di una politica ambientale sostenibile. Il parere di Vincenzo Ferrara, che partecipa alla Cop 10 come rappresentante dell’Enea e responsabile del focal point italiano dell’International panel on climate chang (Ipcc), è che “senza il loro apporto sarà impossibile raggiungere gli obiettivi fissati a Kyoto”. E scettico si dichiara anche Roberto Ferrigno, direttore campagne di Greenpeace, secondo cui “la questione cruciale è capire se i politici riusciranno a tradurre il protocollo in atti concreti”. Sono molte, in effetti, le questioni aperte su cui la Cop 10 è chiamata a prendere delle decisioni. Se l’obiettivo Kyoto è chiaro, meno lo è il modo in cui i singoli paesi dovrebbero raggiungerlo. È tempo di decidere le modalità con cui i paesi più ricchi si impegnano a trasferire finanziamenti e tecnologie ai paesi in via di sviluppo, tenuti fuori protocollo di Kyoto, per non ostacolarne la crescita economica e industriale. Cina, India e Brasile sono la spina nel fianco di questa partita sul clima: nonostante esenti dagli obblighi del protocollo, rappresentano quasi la metà della popolazione e dell’inquinamento mondiale. Secondo le previsioni, tra 20 anni Cina e India arriveranno a quote di emissione di gas serra equivalenti all’Europa e ai paesi industrializzati. Il dopo-Kyoto, allo scadere degli accordi nel 2012, già da ora si preannuncia incandescente. Sarà indispensabile che anche questi paesi si impegnino, come ora tocca ai paesi industrializzati. E a proposito di come fare a raggiungere le riduzioni fissate per il 2012, altro tema in agenda a Buenos Aires è quello dell’“emission trading”, il commercio dei gas atmosferici, una scappatoia per bilanciare i conti in rosso comprando a suon di milioni quote di anidride carbonica dai paesi che ne hanno emessa in quantità minore. Chi non riduce paga, o in sanzioni o comprando azioni. E secondo Roberto Ferrigno questo sarà l’escamotage a cui farà ricorso l’Italia, a meno di una radicale inversione di rotta rispetto all’attuale politica energetica del governo. “L’impegno dell’Italia, al momento della ratifica di Kyoto, era di ridurre del 6,5 per cento le emissioni di gas serra. Siamo saliti a quota +9 per cento, e dobbiamo perciò raggiungere –15,5 per cento entro il 2008-2012”, spiega Ferrigno. “Ciò nonostante il governo continua a sussidiare, come è chiaramente scritto nel piano di allocazione energetica, il settore elettrico, basato principalmente sul carbone, permettendo alle grandi aziende del settore di aumentare le proprie emissioni del 20 per cento nel 2010 rispetto al 1990, invece di ridurle”. Al di là di una questione di costi, rivolgersi al mercato dei crediti internazionali, non può cancellare il fatto che chi paga queste scelte politiche è la collettività, visto che, in ultima istanza, ne va dell’ambiente e dell’aria che respiriamo.

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