Dalla Stanford University arriva una nuova tecnica che conferma la validità della risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRI) e che sembra andare oltre, individuando con precisione i circuiti neuronali (e non solo le aree cerebrali) che rispondono ai diversi stimoli.
Negli ultimi anni le ricerche nel campo delle neuroscienze si sono sempre più servite della fMRI per individuare quali regioni del cervello si “accendono” a seguito di uno stimolo (in tutto sono stati pubblicati più di 250.000 articoli scientifici). Finora, però, la mancanza della certezza della relazione causa-effetto (lo stimolo e le immagini tomografiche rispettivamente) aveva ridimensionato la portata di questi studi. Ora un gruppo di ricerca guidato da Karl Deisseroth è riuscito a dimostrare in maniera univoca la relazione tra stimolo e risultati della fMRI.
La ricerca, pubblicata su Nature, si basa sulla fusione di due procedimenti: la tomografia funzionale a risonanza magnetica, che mostra i livelli di ossigenazione del sangue nelle diverse aree del cervello (dovuta a una maggiore richiesta di energia), e l’optogenetica (vedi Galileo), una tecnica sviluppata proprio a Stanford in cui i neuroni vengono ingegnerizzati geneticamente affinché producano una particolare proteina fotosensibile che si illumina quando colpita da una luce blu a impulsi. Il sistema permette di controllare l’attività neuronale con una precisione dell’ordine di millisecondi (qui la descrizione).
Deisseroth e colleghi hanno modificato i neuroni della corteccia motoria di alcuni ratti; successivamente le cellule sono state colpite con la luce blu (veicolata attraverso fibre ottiche) mentre gli animali anestetizzati venivano sottoposti a Imaging. In questo modo i ricercatori hanno potuto attivare specifici gruppi di neuroni e, simultaneamente, monitorare le immagini della risonanza. Risultato: lo stimolo provoca effettivamente un maggior consumo di ossigeno da parte dei neuroni interessati e la fMRI mostra l’area della corteccia motoria che si accende. “Finora si era preso per assodato che i segnali registrati con la fMRI indicassero un aumento dell’attività neuronale, ma la relazione non era mai stata chiaramente dimostrata”, ha sottolineato Deisseroth.
Secondo i ricercatori, le potenzialità di questa tecnica sono molto ampie e la sua applicazione più immediata è nello studio dei circuiti neuronali. Deisseroth ha già potuto osservare in che modo regioni del cervello distanti fra loro siano collegate: per esempio l’ipotalamo (una regione interna del cervello) e la corteccia somatosensoriale (regione più esterna del cervello molto importante nell’elaborazione delle sensazioni). “Grazie a questa tecnica – ha aggiunto il ricercatore – possiamo finalmente studiare quale sia il reale impatto di uno specifico tipo cellulare su ogni attività del cervello”. (g.b.)
Riferimento: DOI: 10.1038/nature09108; DOI:10.1038/465026a