Papaveri nel mirino

Al Pentagono lo dicono chiaramente: dopo le postazioni militari e gli aeroporti, il prossimo obiettivo degli attacchi in Afghanistan saranno i campi di papavero, vere e proprie miniere d’oro per il regime di Kabul. Finora nel mirino dei bombardieri americani ci sono stati soprattutto i caveau, ben riempiti e nascosti, dove i Talebani hanno previdentemente accumulato il 60 per cento degli abbondanti raccolti di oppio di questi ultimi anni. Ma Bush lo ha detto chiaro e tondo: sarà una guerra lunga, di almeno due anni, e per poter resistere e rifornirsi di armi e munizioni ai fondamentalisti serve molto denaro, tanto quanto solo il commercio illegale dell’oppio ne può portare. E così, dopo aver bandito per una stagione la coltivazione del papavero, dalla radio Mohammed Omar, il mullah che guida i Talebani, invita i contadini a prepararsi per la semina autunnale.

In effetti, il processo che ha portato l’Afghanistan a essere il primo paese produttore di oppio ed eroina ha avuto inizio negli anni Ottanta con l’invasione sovietica, che avviò la distruzione della rete di irrigazione (non necessaria per la coltivazione del papavero) e indusse i signori della guerra a finanziare coi profitti del traffico di oppio la resistenza all’invasore. Ma è sotto il regime degli studenti barbuti che la produzione è raddoppiata (dalle circa 2300 tonnellate del 1996 a più di 4500 nel 2000). Con una inversione di rotta “sorprendente”, gli studenti fondamentalisti appena preso il potere abbandonarono il loro programma di lotta alla droga per fare della produzione di oppio e di eroina la principale risorsa del Paese. Imposero il controllo centrale sulla produzione, estesero le colture e crearono addirittura fattorie modello. Non paghi, avviarono anche la ben più remunerativa attività di raffinazione dell’eroina, sostanza che vale 50 volte di più della materia grezza, l’oppio, dalla quale si ricava.

E così oggi, con un fatturato, secondo la Cia, di 40 mila miliardi di lire all’anno, il settore dà da vivere più o meno direttamente a 7-8 milioni di afgani, un terzo della popolazione, e, insieme alla produzione di hashish, in teoria anch’essa proibita, fornisce il 20 per cento del gettito fiscale (dai 40 ai 50 milioni di dollari l’anno, secondo la Dea, l’agenzia Usa per la lotta alla droga). Risultato: dai campi afgani nel 1999 è venuto il 79 per cento della produzione mondiale di oppio. Un primato conservato nel 2000, anche se la percentuale è scesa al 75 per cento, più per effetto della siccità che per l’efficacia delle iniziative intraprese dall’Undcp, l’Agenzia Onu per il Controllo della Droga e la Prevenzione del Crimine guidata dal 1997 dal sociologo Pino Arlacchi.

Eppure, appena assunto l’incarico, fiducioso nelle possibilità di annientare il traffico mondiale di stupefacenti con programmi di riconversione delle colture, l’italiano si era precipitato ad affrontare la “questione afgana” avviando difficili trattative con il regime talebano. Noncurante delle critiche che già cominciavano a fioccare, nel novembre 1997 era volato in Afghanistan per stringere un patto con i Talebani, che lo avevano addirittura spiazzato dichiarandosi pronti a eliminare l’intera coltivazione di oppio già dall’anno successivo. “Non me lo aspettavo”, confessò allora Arlacchi ai giornalisti che lo avevano seguito nelle piantagioni, “e ho dovuto dire che non eravamo pronti. In tempi così stretti, le Nazioni Unite e la comunità internazionale non avrebbero garantito al paese gli aiuti per uno sviluppo economico alternativo”. Alla fine, comunque, i Talebani accettarono la proposta di eliminare gradualmente le piantagioni, così da dare il tempo all’Onu di raccogliere i fondi (250 milioni di dollari in dieci anni) e agli Afgani di dimostrare la serietà del loro impegno.

Costretto a rimangiarsi la promessa di aiuti per la conversione delle colture e a ripiegare su un progetto da 10 milioni di dollari, il direttore ha dovuto però aspettare l’estate del 2000 per avere la soddisfazione di vedere messa al bando la coltivazione dell’oppio in Afghanistan. Ma secondo la Dea questo provvedimento ha avuto principalmente l’effetto, sul mercato locale, di far salire il prezzo dell’oppio alle stelle: da 44 dollari a 746 per chilo. Dopo un ribasso a seguito degli attentati dell’11 settembre, dovuto alle “svendite” effettuate dai trafficanti timorosi della reazione Usa, il prezzo è risalito attestandosi sui 429 dollari. Queste variazioni non hanno avuto effetto a livello mondiale, né sui prezzi al dettaglio. Ciò fa pensare che sebbene la produzione di oppio sia scesa dalle oltre tremila tonnellate dello scorso anno alle 74 del 2001 (secondo il rapporto Undcp 2001, non ancora ufficialmente pubblicato), la merce non scarseggi nei magazzini dei Talebani. “Non abbiamo rilevato nessuna diminuzione delle quantità disponibili e nessun incremento del prezzo dell’eroina di produzione asiatica in Usa e in Europa”, dice il capo della Dea, Asa Hutchinson, “e ciò significa che considerevoli quantità di oppio ed eroina sono ancora disponibili e il traffico continua su larga scala”.

Molti sospettano quindi che la messa al bando sia stata imposta dai Talebani per ottenere i finanziamenti promessi dalla comunità internazionale o che si sia trattato di una mossa studiata a tavolino per controllare il prezzo dell’oppio e dell’eroina sul mercato locale. Uno specchietto per le allodole, quindi, al quale l’unico ad abboccare, oltre Arlacchi, è stato Bush. Che per premiare l’impegno degli studenti barbuti nella guerra santa alla droga ha elargito, oltre ad altri aiuti, ben 43 milioni di dollari, secondo quanto annunciato dal Segretario di Stato Colin Powell lo scorso 17 maggio. Un dono arrivato dopo che il mullah Mohammed Omar aveva ripetutamente espresso la sua rabbia per il mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale dell’azione efficace dei Talebani contro la coltivazione del papavero da oppio. Nel frattempo, però, provvedeva a rimpinguare i magazzini.

A questo punto gli effimeri risultati di tutte le “guerre alla droga”, suggeriscono una riflessione sulla possibilità di affrontare la questione in altri termini, ponendosi con l’obiettivo, più realistico, di contenere il danno e di interrompere l’imponente flusso di denaro che attraverso il traffico di stupefacenti si riversa nelle mani delle narcomafie e degli attigui ambienti terroristici. E’ la via indicata dagli antiproibizionisti e rilanciata nel maggio scorso anche dall’ autorevole giornale inglese, The Economist: la legalizzazione, vale a dire la regolamentazione e il controllo della produzione, del commercio e del consumo delle droghe. Anche questa strada sembra lunga e difficile, ma forse è il caso di incominciare a percorrerla.

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