Pensieri al limite

“Il fatto che una persona possa essere dichiarata viva in uno Stato e morta in un altro è certamente un paradosso, una sfida al senso comune”. E proprio una sfida al senso comune può essere definito il nuovo libro di Carlo Alberto Defanti, primario neurologo emerito all’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, nelle librerie da giovedì), i complessi problemi riguardanti la fine della vita e la definizione stessa di morte sono stati al centro di una tavola rotonda nell’ambito di “La bioetica tra etica pratica e saperi scientifici. La prospettiva delle professioni sanitarie”, un convegno organizzato dal Master in Etica pratica e bioetica, Università «Sapienza» di Roma, il 5 e 6 novembre scorsi.

Le soglie discusse da Defanti offrono una preziosa occasione per riflettere sulla morte e sul suo cambiamento; e uno strumento formidabile contro semplificazioni e banalizzazioni. Una premessa importante riguarda il modo di affrontare la discussione su questi argomenti. Come lo stesso Defanti sostiene, “non si può prescindere dalle intuizioni morali. Però, siccome possono corrispondere a modelli del passato, devono essere sottoposte ad un vaglio razionale. Ed eventualmente modificate. Questo non significa che siano necessariamente sbagliate, soltanto che non vanno prese per verità immutabili. È un lavoro faticoso, far cambiare idea alle persone è difficile e complesso”. Anche cambiare idea è spesso difficile: Defanti lo ha fatto circa la possibilità di considerare la morte cerebrale come la morte stessa. E nel suo libro racconta questo suo percorso, oltre a soffermarsi su molte questioni di notevole rilevanza e su questioni di metodo.

Spesso un argomento usato per contestare la libertà di interrompere un trattamento sanitario o la libertà di “anticipare” la propria morte consiste nell’affermare – come unica possibilità – la morte naturale. Ove non c’è nulla di “naturale” nel mantenere in vita qualcuno con dei macchinari. È bene ricordare che in molti casi è l’avanzamento della tecnica medica che permette di prolungare la sopravvivenza di quanti fino a pochi anni fa sarebbero morti. La stessa Eluana Englaro, ha ricordato il neurologo, qualche tempo fa non sarebbe mai sopravvissuta: “La morte naturale può capitare in seguito a un incidente in un luogo sperduto; ma tutto il resto è morte culturale”.

Defanti non è ottimista sulla capacità della politica di rispondere ai problemi di bioetica, nemmeno riguardo alle direttive anticipate: “Realisticamente una legge sulle direttive anticipate, se sarà mai approvata, sarà una legge castrata. Ed allora meglio sarebbe nessuna legge”. Perché si rischierebbe di peggiorare la situazione rispetto ad oggi; una normativa sbagliata potrebbe addirittura restringere lo spazio di decisione personale, invece che garantire e rafforzare – come vorrebbe una legge sulle direttive anticipate – il principio che l’individuo può scegliere riguardo ai trattamenti sanitari cui sottoporsi. Sia oggi, in condizioni di coscienza e consapevolezza; sia per domani, qualora non sia più in grado di farlo: in entrambi i casi si tratterebbe di un legittimo esercizio della propria libertà individuale. “Non dovrebbero esserci limiti alla libertà individuale, se non in presenza di danni agli altri”.

Se non possiamo fare a meno delle definizioni (convenzionali e discrete, rispetto all’incessante fluire dei processi biologici, ogni soglia che si cerca di imporre al continuum dell’esistenza sarà imperfetta), non possiamo però sacrificare loro la complessità della realtà. Anche la morte è un processo e in quanto tale difficile da relegare in un momento t preciso e puntuale (sono molto affascinanti, a questo proposito, i capitoli “I segni della morte certa” e la “La paura della morte apparente”).

La concezione di morte cerebrale fa violenza alla gente, che non riesce a crederci. Osservando una persona che è morta cerebralmente non si è capaci di distinguerla da chi non lo è. Il motivo di questo stravolgimento del senso comune sta nel voler aggirare il problema ‘eutanasia’. Conoscendo i retroscena del Comitato di Harvard, dice De Fanti, questa esigenza emerge chiaramente”. Il Comitato della Harvard Medical School nel 1968 stabilì un nuovo criterio di morte: il coma irreversibile (irreversibile coma). Le ragioni secondo il rapporto, erano due: evitare di mantenere in vita un individuo con il cuore che ancora batte ma il cervello irreversibilmente danneggiato; rinnovare i criteri di morte per l’espianto di organi. Ma non è un caso che il Comitato sia stato istituito dopo il primo trapianto di cuore effettuato da Christian Barnard a Città del Capo, con lo scopo di evitare contenziosi giudiziari in interventi simili. “Si sarebbe corso il rischio – espiantando da persone in coma – di essere accusati di omicidio. Il medico che eseguiva un trapianto non poteva rischiare di essere accusato di un reato tanto infamante”. Non è nemmeno un caso che la nuova definizione di morte sia stata appoggiata anche dalla Chiesa per non aprire le porte all’eutanasia: “è la scienza che stabilisce la morte (come morte cerebrale), e una volta accertata è lecito eseguire l’espianto. Se l’espianto dovesse seguire una decisione di accelerare la morte del potenziale donatore, sarebbe l’inizio della fine”. Nonostante l’avversione verso la scienza, in questo caso la Chiesa, osserva io neurologo, sembra averla usata per i suoi intenti: “i discorsi di Pio XII sembrano anticipare il concetto di morte cerebrale”.

Le soglie discusse da Defanti offrono una preziosa occasione per riflettere sulla morte e sul suo cambiamento; e uno strumento formidabile contro semplificazioni e banalizzazioni. Ridiscutere i criteri di morte, si badi, nulla ha a che vedere con l’opportunità di usare il criterio di morte cerebrale. “Non voglio attaccare i trapianti – conclude Defanti – ma riflettere e dare conto della complessità. La morte cerebrale può essere considerata come un criterio infallibile di morte a venire (spesso nel giro di poco tempo; qualche volta dopo molto). Questi criteri sono etici, oltre ad essere scientifici”. Chiarire i concetti, insomma, non implica assolutamente sabotare le terapie.

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