Per curare il fegato si punta sul microbioma intestinale

Il King’s College di Londra ha lanciato British Gut, il più grande progetto scientifico europeo open-source (in collaborazione con America Gut) per studiare tutti batteri che popolano l’intestino umano, ad oggi in gran parte sconosciuti, e scoprire come il microbioma sia influenzato dalla dieta, dallo stile di vita e dalle malattie. E viceversa.

I cittadini del Regno Unito (ma non solo) sono inviati a partecipare con una donazione, grazie alla quale riceveranno un kit per raccogliere campioni del proprio microbioma intestinale da mandare al King’s, ed entreranno così a far parte dello studio.

Tutto questo interesse per i piccoli abitanti del nostro apparato digerente è più che giustificato: gli studi di biologia molecolare ci hanno rivelato che il solo intestino è popolato da più di mille miliardi di batteri e che oltre il 90% delle cellule del e sul corpo non sono nostre in senso stretto. Nel complesso, questi microrganismi arrivano a pesare ben due chili (vedi Galileo, “La carta d’identità dei batteri“). E sembra che gli equilibri e le differenze tra le numerose comunità possano influenzare la suscettibilità verso alcune patologie, soprattutto quelle infiammatorie croniche come la sindrome del colon irritabile e la malattia di Crohn. Sono state trovate correlazioni anche con l’obesità (vedi Galieo, “Quei batteri che fanno ingrassare“) e con le malattie del fegato.

Uno degli ultimi studi che mostrano un nesso tra salute e ceppi batterici nell’intestino è apparso su Nature e riguarda i pazienti con cirrosi epatica. È stato condotto sempre dal King’s College insieme all’Università cinese di Zhejiang e all’Institut National de la Recherche Agronomique di Parigi. I ricercatori hanno analizzato il Dna del microbioma intestinale di 250 persone – metà delle quali con cirrosi e metà in salute – arrivando ad identificare 800 mila geni fino ad allora sconosciuti. E trovando che la frequenza di 75 mila geni varia drasticamente quando si comparano i due gruppi di volontari.

L’analisi ha rivelato che 28 specie di batteri molto più abbondanti in chi ha la malattia epatica rispetto a chi è sano. Ma non solo: più del 40% del microbioma dei pazienti con cirrosi era rappresentato da batteri che raramente si trovano nell’intestino delle altre persone; la maggior parte di questi provenivano dalla bocca, con una vera e propria invasione. Vi erano inoltre batteri vaginali e dell’ileo.

“Questi dati mostrano che nei pazienti con cirrosi cambia completamente l’equilibrio tra le popolazioni di batteri intestinali, si ha cioè una disbiosi”, commenta Antonio Gasbarrini, docente di Gastroenterologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e Gastroenterologia del Policlinico Gemelli di Roma. “È per questo che trattandoli con la rifaximina, un antibiotico a basso assorbimento che non affatica il fegato e che non dà luogo a ceppi resistenti, è possibile intervenire efficacemente durante le complicanze della malattia, come gli attacchi di encefalopatia epatica”.

L’encefalopatia epatica è una complicanza dovuta ai danni cerebrali che si verificano quando il fegato non è più in grado di ripulire il sangue dalle tossine, che cominciano così ad avvelenare il cervello. I primi sintomi sono cali dell’attenzione e deficit delle abilità spaziali, che provocano non di rado incidenti stradali, fino ad arrivare alla compromissione della capacità di parlare e al coma. “Una condizione poco conosciuta che grava fortemente sulla qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari, ma che potrebbe essere prevenuta agendo sui batteri dell’intestino”, conclude Gasbarrini.

Riferimento: doi:10.1038/nature13568

Institutes of Health Human Microbiome Project (HMP) 

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here