Per tutti e per ciascuno

Che cosa dobbiamo intendere per società giusta e quali sono i principi di giustizia che una società dovrebbe osservare? In che misura le esigenze della giustizia sociale possono limitare le libertà e i diritti dei singoli cittadini; e quali sono i diritti che in una società devono essere salvaguardati? E’ giusto, per esempio, opporsi ad un determinato assetto della cooperazione sociale in nome dei nostri diritti, anche se questo è vantaggioso per molti altri? O ancora: sono giustificabili o no, le diseguaglianze tra le persone frutto dei meriti individuali? E dovremmo fare qualcosa contro le ineguaglianze che non dipendono da chi ne è vittima? (1) Queste semplici domande rappresentano i tratti fondamentali del discorso politico e morale sulla dimensione associata delle nostre vite. Quando ci occupiamo di domande di questo genere abbiamo a che fare con questioni di giustizia sociale e di diritti individuali.

Cosa intendiamo per questioni di giustizia? E perché c’è bisogno di una “teoria” della giustizia?

Quando, occupandoci di questioni pubbliche, impieghiamo il termine “giustizia”, ci riferiamo di solito alla “giustizia sociale”, cioè a quell’insieme di principi e regole che dovrebbero governare una società concepita come un sistema mutualmente cooperativo. La questione centrale per qualsiasi teoria della giustizia è se siano difendibili relazioni di diseguaglianza tra gli esseri umani. Queste diseguaglianze possono essere molto diverse: rapporti di potere politico ed economico, differenze nelle capacità individuali e nell’istruzione, ecc. Ogni teoria della giustizia si propone di comprendere quali siano le diseguaglianze ingiuste e come porvi rimedio.

Due sono le concezioni che stanno alla base dei diversi modi di concepire la giustizia: l’idea della giustizia come mutuo vantaggio e quella della giustizia come imparzialità (2). La prima concepisce le persone come soggetti razionali e autointeressati i quali comprendono che solo cooperando con gli altri membri della società possono aspettarsi di promuovere più efficacemente i propri interessi. Secondo questa concezione, la giustizia è un punto di convergenza di diversi interessi e valori, un equilibrio costituito da un insieme di vincoli che i membri della società accettano come il prezzo minimo da pagare in termini di libertà e autonomia, per ottenere la cooperazione altrui. Per la seconda concezione, invece, la giustizia è il punto di vista impersonale che le persone devono poter assumere per giudicare le situazioni di conflitto. L’imparzialità consiste nella capacità di assumere un punto di vista mediano tra le diverse parti, astraendo dai propri interessi e convinzioni contingenti. Il filosofo americano John Rawls (Una teoria della giustizia,1971) è considerato uno dei massimi esponenti di questa seconda linea di pensiero (3).

Rawls: la giustizia come equità

Rawls sostiene che la giustizia è il primo requisito delle istituzioni pubbliche: è il criterio ultimo di valutazione dei sistemi sociali così come la verità lo è per la scienza. La società è concepita da Rawls come un sistema cooperativo autosufficiente e regolata da norme che vincolano il comportamento reciproco. Ma un elemento costitutivo di questa concezione è la presenza, oltre agli interessi condivisi, anche di numerosi conflitti. Lo strumento che permette di comporli è l’appello ad un insieme di principi in grado di discriminare tra assetti giusti e ingiusti. Due “principi di giustizia” forniscono il metodo per assegnare diritti e doveri nelle istituzioni fondamentali della società: il primo stabilisce che ogni persona ha titolo ad eguali diritti e libertà fondamentali e che questa attribuzione deve essere compatibile con quella di tutti. Il secondo sancisce che le diseguaglianze sociali ed economiche possono essere ammesse solo a patto che diano il massimo beneficio possibile ai membri meno avvantaggiati della società. Per Rawls, i diritti e le libertà fondamentali possiedono un valore in sé e non possono essere oggetto di contrattazione politica (non è possibile negare alcune di queste libertà fondamentali, fosse anche a scapito di un solo membro della società, in nome del benessere di altri) (4). Una società bene ordinata, cioè ispirata ad una concezione della giustizia come equità, deve garantire attraverso le sue istituzioni e organi di governo, che lo spazio di autonomia e libertà possa essere sempre salvaguardato.

Ma perché Rawls dà rilievo soltanto alle libertà politiche fondamentali e non anche ad altri tipi di libertà, come per esempio quelle connesse, per esempio, ai diritti sociali ed economici? E quali sono esattamente queste libertà? Grossomodo esse sono la libertà politica, di parola e di riunione, le libertà di coscienza e di pensiero; la libertà della persona, e il diritto di possedere proprietà; la libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari. E’ evidente che manca il riferimento alle condizioni di uguaglianza o disuguaglianza economica che costituiscono l’altro elemento di una teoria della giustizia sociale. E’ il secondo principio (noto come principio di differenza) che assolve a questa funzione. Rawls afferma che solo alcune relazioni di diseguaglianza sono ammissibili: (a) quelle compatibili con posizioni sociali aperte a tutti (alcune diseguaglianze, per esempio quelle basate sulla razza o sulle credenze religiose, e in generale tutte quelle diseguaglianze legate a fattori discriminatori e pregiudiziali, non sono validamente difendibili) e che (b) verrebbero scelte dai membri meno avvantaggiati della società rispetto a tutti assetti sociali possibili. Questa seconda parte del principio costituisce la cosiddetta regola di maximin (il massimo dei minimi): chiede di perseguire sempre la soluzione distributiva più vantaggiosa per i meno fortunati.

In che senso questa concezione della giustizia è equa? Interpretando Rawls, possiamo dire che equo è ciò che, di volta in volta, è medio rispetto alle diverse pretese in conflitto. Per quanto detto prima una scelta equa è di conseguenza una scelta dettata da imparzialità. Ma una scelta equa non è anche necessariamente egualitaria: una soluzione equa è, per esempio, quella che assegna una certa quantità di beni in modo proporzionale alle parti in causa; ma una divisione di questo tipo non è affatto eguale. Per stabilire la scala dei bisogni tra i diversi attori sociali è necessaria, almeno idealmente, una discussione pubblica in cui ognuno possa avanzare le proprie pretese. In questo senso una scelta equa è giusta: è giustificabile sulla base di una discussione idealmente pubblica. A differenza dell’equità, l’eguaglianza per Rawls sembra essere un valore che sta a monte della giustizia, più che un criterio del giusto. Essa riguarda, cioè, aspetti profondi della vita sociale, come i beni sociali primari (la salute, la difesa, il diritto allo studio) e tutte le libertà fondamentali. E’ solo quando abbiamo sancito questi diritti e fornito in modo eguale i beni fondamentali, che il gioco delle capacità naturali e dei talenti può prendere il via, lasciando agli attori sociali la libertà di costruire un piano di vita che sia per loro il più soddisfacente possibile.

Rawls ritiene che i principi di giustizia siano ragionevoli e verrebbero scelti da persone razionali in “posizione originaria”. Questa è, in sostanza, un artificio espositivo che rappresenta, ad un più alto grado di astrazione, una prosecuzione della tradizione del contratto sociale. I decisori razionali sceglieranno i principi di giustizia per la cooperazione sociale ignorando alcune informazioni che potrebbero falsare l’esito di una contrattazione equa per tutti (essi non sanno quale sorte naturale toccherà loro, né quale posizione sociale occuperanno nella società futura; è il cosiddetto “velo di ignoranza”). Nella scelta ipotetica della posizione originaria, Rawls fa appello alle capacità razionali degli individui e al loro autointeresse. Ma, un individuo razionale, non sapendo quale sorte gli toccherà nella lotteria della società, congela gli interessi individuali e lascia che sulla base della sola razionalità vengano decisi i principi di giustizia. E poiché la razionalità comporta anche la prudenza, i decisori eviteranno di giocare “d’azzardo”. Questo deficit informativo costringe così i decisori a considerare i termini dell’accordo da un punto di vista impersonale (5). Rawls fornisce anche un altro argomento, più intuitivo, a favore della sua teoria. I principi di giustizia devono in qualche modo rispondere alle nostre intuizioni condivise su che cosa sia una società giusta. A questo scopo è necessario una sorta di aggiustamento reciproco, ottenuto attraverso una riflessione intellettuale, tra giudizi intuitivi e principi in grado di portare ad un equilibrio in cui gli uni si rispecchino negli altri (il metodo dell’”equilibrio riflessivo”). In questo modo Rawls mostra che i principi possono essere giustificati non solo dal punto di vista della razionalità procedurale, ma anche dalla prospettiva delle nostre convinzioni morali e del nostro “senso pubblico di giustizia”.

La teoria della giustizia di rawlsiana è stata la più influente teoria filosofica della politica degli ultimi trent’anni. La predominanza di questa proposta ha influenzato tutto il dibattito successivo sui temi della giustizia sociale. La fortuna della teoria consiste nel fatto che Rawls, pur presentandosi come un pensatore liberale pienamente all’interno della tradizione contrattualistica, ha compreso il valore dell’eguaglianza come valore politico fondamentale delle società contemporanee. L’importanza di questo elemento non va sottovalutata. Rawls infatti ha inteso, da un lato, sottrarre al pensiero utilitarista l’interpretazione dominante di questo tema, dall’altro è riuscito a renderlo coerente con una prospettiva che accetta in modo genuino il valore delle libertà e diritti fondamentali.

Diritti e libertà sono sempre compatibili con la giustizia?

L’etica dei diritti costituisce, da un punto di vista storico, una filiazione delle dottrine giusnaturalistiche del pensiero moderno. I giusnaturalisti moderni intendevano difendere l’idea che esistesse una sfera di autonomia delle persone contro le ingerenze del potere politico. I diritti a cui Hobbes e Locke si riferivano erano i cosiddetti diritti negativi e di libertà (6). Questa tradizione, dopo un periodo di declino e di critica da parte egualitaria, è tornata massicciamente in auge nella seconda metà del XX secolo.

Questo si vede nel modo con cui oggi facciamo valere, attraverso il linguaggio dei diritti, le nostre ragioni nel dibattito etico e politico. E, per di più, la nostra concezione dei diritti si è notevolmente allargata, fino a recepire i nostri diritti non solo come libertà da ingerenze o oppressioni, ma come diritti positivi, cioè pretese nei confronti delle istituzioni pubbliche e dello stato (i diritti all’istruzione, alla salute, al lavoro, ecc.) (7). In effetti, l’appello ai diritti si è configurato, nelle attuali società costituzionali, come uno strumento bifronte. Da un lato ha conservato il suo antico carattere libertario, che in alcuni casi, come ad esempio negli ex regimi comunisti, ha rappresentato una opposizione tenace in nome dei valori della persona contro l’egualitarismo forzato e oppressivo della legge statale (un tipico caso, questo, di come una concezione della giustizia possa collidere con i diritti individuali e le libertà dei singoli). Dall’altro, con l’affermarsi dei diritti positivi, si è assistito ad una progressiva integrazione delle pretese di larga parte delle popolazioni nell’agenda delle istituzioni pubbliche, che ha ampliato una visione obsoleta delle vecchie democrazie occidentali, le quali negavano la realizzazione della giustizia materiale in nome della giustizia legale (8).

L’etica dei diritti si confronta, oggi, soprattutto con questa dimensione allargata della concezione dei diritti, dando vita, a seconda delle sue formulazioni, a tentativi di riforma o di critica del welfare state. Questo confronto spesso produce un dissidio. L’appello ai diritti mette in crisi la possibilità di un criterio di giustizia compatibile con le esigenze di tutti e questo per la semplice ragione che diverse persone possono far valere, nelle medesime condizioni, diritti diversi, producendo una situazione che, se da un lato promuove il pluralismo, dall’altro rischia di acuire situazioni di insanabile conflitto. L’etica dei diritti, sostengono i teorici del welfare, non sembra capace di fornire una visione coerente del ruolo della giustizia per una società democratica e dovrebbe essere integrata da altri principi di livello più generale.

Una aperta sfida a questa visione proviene dal maggiore filosofo libertario, Robert Nozick (Anarchia, Stato, Utopia, 1974). Nozick ritiene che sia moralmente condannabile ogni scopo di giustizia distributiva che, in nome del bene pubblico, vìoli la protezione di alcuni diritti fondamentali, primo fra tutti quello di proprietà. Il cosiddetto “stato minimo” che egli propone è, a suo avviso, l’unico modello sociale in grado di riconoscere ad ogni individuo la libertà personale di disporre dei propri beni e di essere “possessori di se stessi”. Anzi, proprio quest’ultimo diritto, che è a fondamento di tutti gli altri, si impone in modo assoluto al di là delle considerazioni sulle condizioni economiche o posizioni sociali dei membri di una società, perfino dei meno avvantaggiati (9).

La prospettiva dello “stato minimo” è chiaramente alternativa all’idea di giustizia di Rawls. Mentre in questo caso il problema della giustizia comprende non solo le libertà politiche (I principio), ma anche la distribuzione delle risorse economiche (II principio), in Nozick i vincoli di giustizia devono riguardare la sola garanzia delle prime. Ne emerge così un concetto di giustizia che si riduce al rispetto dei patti (10). Le diseguaglianze sociali ed economiche sono subordinate a queste garanzie e non rientrano in una contrattazione di giustizia; piuttosto, sono l’effetto delle capacità che ogni individuo ha di realizzare un piano di vita soddisfacente. Ledere queste capacità significherebbe per Nozick attentare al valore intrinseco dell’autonomia personale. Questo implica che nessuna teoria della giustizia può dirsi tale se, in nome dell’imparzialità, sopprime il punto di vista personale di ognuno di noi. Quella di Nozick è, in ultima analisi, una teoria che afferma che, prima del giusto, di ciò che può essere pubblicamente giustificabile, dev’essere salvaguardata la soggettiva concezione del bene di ognuno di noi. Riconoscere che ogni persona ha una visione del bene inviolabile significa riconoscere il principio kantiano per cui nessuno può essere trattato come una risorsa per il bene di qualcun altro.

Una diversa interpretazione del ruolo dei diritti nelle società democratiche occidentali è data da Ronald Dworkin e dal premio Nobel per l’economia Amarthya K. Sen.Il loro tentativo è quello di puntare sull’allargamento del significato dei diritti positivi e di una visione più ampia dello spazio dell’autonomia personale. Ma, a differenza di Nozick, questo spazio, in quanto comprende anche la disponibilità di beni e risorse che rendono effettivi i diritti stessi, dovrà fare a meno della tutela di alcuni di essi, come il diritto di proprietà, che Nozick – come abbiamo già visto – ritiene assoluti. In Dworkin, invece, i diritti funzionano come una carta di riserva, o meglio come una sorta di “asso nella manica”, i quali possono essere esibiti ogni volta che le procedure della giustizia sociale rischiano di mettere in pericolo le libertà di base e i fondamenti dello stato costituzionale (11).

Il punto focale della disputa tra teorici dei diritti libertari e teorici della giustizia egualitari è, in fin dei conti, l’estensione dei diritti stessi. Sembra infatti che una concezione della giustizia sociale di stampo egualitario allarghi la sfera di coercizione dello stato in nome del bene di una intera comunità, mentre i teorici libertari ritengono che tale sfera debba essere più contenuta. Riassumendo, possiamo dire che, mentre chi si appella ai principi della giustizia sociale chiede al singolo di sopportare degli oneri in nome degli altri membri, i teorici libertari rifiutano che la maggior parte dei costi sociali possano essere giustificati in nome di qualche vantaggio cooperativo; e questo perché il valore della propria autonomia è immensamente maggiore di qualsiasi beneficio che potrebbe derivare da una cooperazione integrale.

E’ possibile una reciproca integrazione tra giustizia sociale e diritti di libertà?

Un problema epistemologico si annida dietro l’uso che facciamo del linguaggio dei diritti. Non sembra infatti esserci alcun fondamento sicuro alla nozione che abbiamo di diritti politici, umani o sociali, se non attraverso il ricorso ad una serie di intuizioni incontrollate. Ma cosa accade nel momento in cui dobbiamo decidere, tra due o più diritti che sono in conflitto, quale debba avere la meglio? Poiché ogni intuizione è buona solo per chi la possiede, non sembra che i diritti stessi possano stare alla base di una teoria coerente della giustizia (12). Non per questo però possiamo negare le ragioni pragmatiche a favore del vocabolario dei diritti: spesso, infatti, questo vocabolario ci permette di individuare le questioni dal punto di vista delle vittime, di chi è violato dal potere altrui, svolgendo in questo modo un’opera di sensibilizzazione morale.

Ad ogni modo, sembra che il linguaggio dei diritti non possa bastare da solo a garantire le pretese dei membri di una società. I diritti non possono stare da soli all’interno di una teoria della società giusta. Essi esprimono piuttosto l’esigenza di riconoscere che pur nella diversità di ogni persona, tutti possiedono capacità e progetti di vita che vanno tenacemente rispettati. E questo è, secondo l’etica dei diritti un fattore di unificazione più che di anarchia sociale. I diritti, in una visione compatibilista, svolgono piuttosto la funzione di primo criterio contro i soprusi di possibili governi o maggioranze, più che quella di fondamento ultimo del valore delle persone.

Una conclusione emerge: i diritti non sono incompatibili con la responsabilità sociale. Al contrario, la presuppongono. Possiamo dire che giustizia sociale e diritti dovrebbero integrarsi – bilanciandosi reciprocamente – in una teoria della giustizia capace di rispettare l’imprescindibile valore morale di ogni essere umano. “Prendere sul serio” (13) il carattere di unicità delle persone, con le loro differenze, desideri e piani di vita, e riconoscere al tempo stesso che, nelle pratiche della nostra vita morale, le prerogative di tutti noi, nessuno escluso, devono poter stare insieme, è l’unico modo di rispondere alle sfide delle società complesse e globali (14).

Link

SWIF (Sito Web Italiano per la Filosofia)

Internet Encyclopedia of Philosophy

Noesis: motore di ricerca per la filosofia

Stanford Encyclopedia of Philosophy

Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche

Note

1) Come, ad esempio, si chiede Thomas Nagel 1996, pag. 91]

2) Barry [1996, pag. 23 e segg.]

3) In realtà, molto si è discusso se in Rawls non convergano ambedue queste tradizioni. La mia posizione è che, in effetti, sia così.

4) Rawls [1982, pag.67]

5) Questo artificio sembra legare la tradizione della giustizia come mutuo vantaggio all’altro filone, kantiano, che vede la giustizia come imparzialità. Infatti, è all’oscuro dall’autointeresse che siamo in grado di porci dal punto di vista di tutti poiché, semplicemente, potremmo trovarci in qualsiasi posizione sociale. Anzi, è in base alla stessa razionalità prudenziale che siamo portati a tenere conto di tutte le posizioni sociali, poiché una qualsiasi di esse potrebbe essere la nostra

6) O, per usare una formulazione di Isaiah Berlin, le “libertà negative”, le libertà da, nel senso di libertà di astenersi dal fare qualcosa che il governo o la legge possano comandare contro l’autonomia o il bene della persona singola

7) Si pensi al riconoscimento implicito di quest’ultimo diritto, troppo spesso disatteso, nel primo articolo della nostra Costituzione

8) Quello a cui oggi ci si riferisce con politica dei diritti è proprio la lotta per il riconoscimento di una serie di esigenze che gli esseri umani avrebbero in quanto tali e che le istituzioni dovrebbero garantire, anche alla luce di una concezione della persona umana intesa in senso più vasto

9) Come avviene, ad esempio, attraverso le politiche di tassazione e redistribuzione delle risorse

10) Vedi su questo punto Donatelli, “La teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni”, pag. 113, a Lecaldano- Donatelli [1996]

11) Casi in cui, ad esempio, forti maggioranze minacciano di schiacciare deboli minoranze in nome di scelte nominalmente democratiche.

12) Questa è la posizione, tra gli altri, di Eugenio Lecaldano [1995, pag.138]

13) Mi riferisco alla fortunata formulata utilizzata da Dworkin [1982], del quale, in ultima analisi, sposo la prospettiva.

14) Così Brenda Almond [1991, pagg. 259-269]

Bibliografia

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