Categorie: Società

Perché le nonne allungano la vita

L’essere umano: animale razionale o bipede implume? Forse la definizione migliore potrebbe essere ancora un’altra, qualcosa di simile a “primate con la nonna”, almeno secondo i risultati di uno studio dell’Università dello Utah. Le donne anziane infatti, aiutando le madri ad accudire la prole, avrebbero creato le condizioni ideali per un allungamento della vita media della specie, da cui sarebbero scaturite anche le caratteristiche sociali, biologiche e cognitive che caratterizzano l’essere umano. Nell’articolo pubblicato sui Proceedings of the Royal Society B, i ricercatori hanno dimostrato con un modello computerizzato questo scenario evolutivo, anche noto come l’“ipotesi della nonna”.

La teoria, proposta nel 1997 dagli antropologi James O’Connell e Nicholas Blurton Jones, si fonda sulle caratteristiche del territorio in cui vivevano gli antenati della specie umana nel periodo in cui si sono divisi dagli altri primati. Vale a dire in Africa, in un periodo in cui le foreste stavano lasciando il posto alla savana, un ambiente arido dove è più difficile procacciarsi il cibo. “Le madri avevano quindi due scelte,” spiega Kristen Hawkes, antropologa dell’Università dello Utah a capo dello studio. “Potevano seguire la ritirata delle foreste, dove era facile per i cuccioli procurarsi del cibo subito dopo lo svezzamento, oppure continuare a nutrire i cuccioli più a lungo. Questa opzione rappresenta però un problema per la madre, perché non puoi avere altri figli mentre ti stai ancora occupando dell’ultimo”.  

La situazione avrebbe offerto l’opportunità alle femmine vicine alla menopausa di dare una mano, raccogliendo tuberi e frutti dal guscio duro che i cuccioli non sarebbero stati altrimenti in grado di trovare da soli, e permettendo così alle giovani madri di avere più figli in un intervallo di tempo minore. L’aiuto delle nonne avrebbe portato nel tempo a due cambiamenti nella specie: da un lato l’evoluzione di uno svezzamento precoce dei cuccioli, seguito però da una lunga infanzia, in cui questi potevano contare sull’aiuto delle nonne per sfamarsi; dall’altro le donne sarebbero state selezionate per una maggiore durata della vita oltre la menopausa, così da diventare, appunto, nonne.

Per verificare l’ipotesi, il team di Hawkes ha sviluppato un modello computerizzato che studiasse l’evoluzione di una popolazione con la durata di vita dei primati non umani, una volta sottoposta alla pressione selettiva dell’ “effetto della nonna”. I risultati hanno mostrato che in 24.000 – 60.000 anni la vita media della popolazione passava da 25 anni (la durata tipica della vita di uno scimpanzé) a 49, età interpretata dai ricercatori come sostanzialmente umana.

“I primati che sono rimasti nelle foreste sono quindi i nostri cugini, le grandi scimmie,” spiega Hawkes, “quelli che invece hanno iniziato a sfruttare le risorse di cui i cuccioli appena svezzati erano incapaci di approfittare autonomamente hanno invece aperto la porta all’ ‘effetto della nonna’, evolvendosi col tempo nell’Homo sapiens”.

I ricercatori suppongono infatti che l’aumento della longevità causato dall’ “effetto nonna” potrebbe essere alla base di molti dei cambiamenti più importanti nell’evoluzione dell’a nostra specie, compreso l’aumento di dimensioni del cervello. “Fare i nonni ci ha dato lo stimolo a dipendere maggiormente dagli altri e a ricercare la loro attenzione” conclude Hawkes. “Questo ha portato alla nascita di una serie di capacità che sono il fondamento dell’evoluzione di caratteri specificamente umani, come cervelli più grandi, monogamia, capacità di apprendere nuove abilità e tendenza alla cooperazione.” 

Riferimenti: Proceedings of the Royal Society B Doi: 10.1098/rspb.2012.1751

Credits immagine: stumayhew/Flickr

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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