Prêt a porter da cani

“Quando vedo una signora in pelliccia mi pare sempre di incontrare un cane senza padrone”. Margherite Yourcenar, che così scriveva in uno dei suoi libri, “Colpo di grazia”, non immaginava certo, nel 1939, che la sua potesse essere, in realtà, molto più di un’impressione. Oggi, infatti, secondo le stime della Lav (la Lega antivivisezione) oltre due milioni di cani e gatti, ogni anno nel mondo, vengono sacrificati alle esigenze di un lucroso commercio tra i Paesi orientali, produttori di pelli, e quelli occidentali, le lavorano trasformandole in colli e bordi per capi alla moda. Italia inclusa: è di pochi giorni fa la notizia del ritrovamento sul mercato romano di giacconi rifiniti con il manto di cani e gatti. I magazzini coinvolti, un negozio Oviesse e uno Upim, sono stati inchiodati dai test genetici, effettuati dall’Istituto nazionale di fauna selvatica, che hanno identificato il Dna di “canis familiaris” dal pelo dei cappucci di due parka. Altre aziende del Veneto, della Toscana, della Liguria, del Piemonte, del Trentino Alto Adige e della Sicilia, sono sotto attento esame e non soltanto in relazione ai capi d’abbigliamento. Sembra, infatti, che i nostri amici a quattro zampe non vengano usati soltanto per decorare risvolti di piumini, cappucci, maniche e guanti, ma anche per foderare borse, calzature e giocattoli.

Già all’inizio degli anni Novanta, un’azienda italiana produttrice di articoli da sci venne accusata di importare dalla Cina pelli di cane per la guarnizione di scarponi e doposci. Nel 1997 fu fermato un carico di 4,7 tonnellate dal contenuto analogo, destinato dallo stesso Paese all’Italia. Prove certe di quello che la Lav chiama “il segreto peggiore dell’industria delle pellicce”, arrivano, infine, da un filmato realizzato tra il 1997 e il 1999 da alcuni volontari della Human Society of United States, la maggiore associazione nell’ambito della protezione animale, che attraversarono la Cina, le Filippine, la Thailandia, la Corea fingendosi acquirenti di prodotti in pelle. Sono immagini di veri e propri lager: allevamenti con temperature bassissime perché il pelo si infoltisca, gabbie dove gli animali (da cinque a 300) vengono ammassati e privati del cibo e dell’acqua, sacchi per trasportarli, coltelli per scuoiarli (non è necessario che siano morti) e cappi per impiccarli. Nessuna pietà per i cuccioli e persino per i bambini, usati, anche loro, in questo “lavoro”. Per fare una pelliccia occorrono tra i dieci e i 12 cani oppure tra i 18 e i 24 gatti. L’esemplare più richiesto è il pastore tedesco (comprato per nove dollari), ma gli allevatori non disdegnano i chow-chow e i meticci. Gatti pregiati sono considerati i soriani e quelli di color rosso (che valgono fino a tre dollari): alcuni soffocati, altri affogati, altri ancora decapitati. “Una delle coperte più richieste all’estero, ha detto Rick Swain, uno dei volontari, è fatta di teste e orecchie di felino”. Dagli allevamenti alle macellazioni (non si dimentichi che in Cina la carne di cane è servita nei ristoranti e che un macellaio uccide dieci-dodici cani ogni giorno) fino ai mercati e alle aste internazionali il passo è breve e legale.

Infatti, se per i Paesi che aderiscono alla Convenzione di Washignton “è illegale allevare cani e gatti per ricavarne pellicce, nessuna legge vieta, invece, l’importazione delle pelli”, afferma Roberto Bennati, responsabile della campagna Lav contro tale pratica. E se il video realizzato dagli 007 della Hsus ha portato il Parlamento americano ad approvare, il 13 ottobre 2000, un disegno di legge che proibisce l’importazione, la legislazione dell’Unione Europea è ancora carente. In Italia, dove la legge quadro nazionale 281/1991, tutela cani e gatti in quanto “animali da affezione” e dove il codice penale punisce chi li maltratta, nessuna multa è prevista per chi ne vende le pelli. Soltanto nei giorni scorsi, come conseguenza dell’accaduto, il senatore verde Natale Ripamonti ha presentato un disegno di legge in merito, chiedendo anche di introdurre etichette “trasparenti”. “Mongolian dog” e “canis latrans”, “wild cat” e “mountain cat”, ma anche più genericamente “pelo naturale” e “vera pelliccia” sono, infatti, le ambigue definizioni che compaiono sulle etichette, in pratica degli escamotage per aggirare la sensibilità dei consumatori. Ma non è credibile, che chi compra all’asta o chi commercia a livello internazionale non sia consapevole della provenienza delle pelli. “E’ una realtà ben nota”, conclude Bennati, “invisibile solo a chi è accecato dal dio denaro”.

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