Categorie: Società

Quando il cervello si sforza di pensare

più, o esercitare un pensiero migliore, implica una maggior attività cerebrale? In altre parole, le funzioni cognitive implicano un elevato lavoro da parte del cervello e in particolare della corteccia cerebrale? In un recente convegno che si è tenuto all’Università di California ad Irvine sono stati sollevati dei dubbi su questo presupposto parallelismo: secondo una serie di ricerche effettuate soprattutto da Richard Haier, un esperto nella PET e nelle tecnologie di Brain Imaging, il pensare ha un “costo” diverso a seconda delle persone e in particolare della loro intelligenza.

Haier ha svolto delle ricerche sul metabolismo cerebrale di persone dotate di elevata intelligenza (matematici, logici ecc.) e di persone dotate di un’intelligenza media o caratterizzate da handicap di vario genere. Egli ha notato che di fronte a un compito che implica un ragionamento abbastanza complesso le persone intelligenti dimostrano una minore attività metabolica cerebrale, cioè i loro neuroni lavorano ad un regime più basso, mentre quelle dotate di un’intelligenza media o scarsa hanno un’attività corticale più elevata, come se il loro cervello dovesse compiere uno sforzo maggiore.

Le ricerche di Haier suscitano però alcuni interrogativi: alcuni si chiedono infatti se i suoi dati non indichino in realtà che in alcune persone le funzioni cognitive (o meglio alcune funzioni come quelle logico-matematiche) si accompagnino ad una diversa attività di tipo emotivo, che mette in moto diverse parti della corteccia e del cervello: infatti nelle persone meno intelligenti, che pur arrivano a risolvere, anche se più lentamente i test posti da Haier, esiste una notevole componente emotiva, probabilmente legata alla percezione dei propri limiti o delle proprie difficoltà. In queste persone si attiva anche la corteccia temporale che non riflette attività di tipo emozionale: resta però da stabilire se le emozioni siano un fatto secondario, siano cioè messe in moto dalla percezione dei propri limiti e indichino uno stato di agitazione prodotto dal blando stress della situazione del test, oppure se esse non siano messe in moto a fini cognitivi: se cioè in alcune persone esse non compartecipino alla soluzione di problemi cognitivi in quanto esse richiamano alcuni aspetti delle memorie e di altre funzioni intelligenti dotate di valenze di tipo emotivo.

Daniel Goleman, che di recente ha scritto un saggio sulla “Intelligenza emotiva sostiene infatti che esistono diversi tipi di approccio cognitivo alla realtà, alcuni più freddi ed altri più “caldi”, legati cioè ad una componente emotiva. Nelle persone con degli handicap mentali o caratterizzate da problemi cognitivi non gravi le funzioni emotive svolgerebbero un ruolo di supporto, consentendo di distribuire memorie e di attivare logiche che dipendono anche da agganci di tipo emozionale.

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