Quando la merce parla di sé

Massimo Canevacci
Antropologia della comunicazione visuale. Feticci, merci, pubblicità, cinema, corpi, videoscape
Meltemi, 2001
pp.283, £35.000 (18.07 euro)

“Questo testo è il risultato di una ricerca su diversi piani della comunicazione visuale attraversata da punti di vista etnografici multipli”. Così Massimo Canevacci, docente di Antropologia Culturale alla facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza”, presenta la nuova edizione del suo saggio, precedentemente edito da Costa & Nolan, e ora aggiornato e arricchito soprattutto da due inserti fotografici inediti in Italia, tratti dalle ricerche condotte a Bali da Gregory Bateson e Margaret Mead fra il 1936 e il 1938. E proprio l’esperienza di Bateson e Mead è una delle trame che l’autore percorre etnograficamente nel tentativo di esplorare i panorami intrecciati della comunicazione visuale: non solo oggetto della ricerca antropologica, ma al contrario soggetto di un’antropologia tesa verso una moltiplicazione dei punti di vista, dei modi e dei linguaggi della rappresentazione.

Nella ricerca antropologica non si può distinguere “soggetto” e “oggetto”: la stessa merce ormai comunica se stessa, ha una sua biografia, una sua storia, e il modo in cui comunica è essenzialmente visuale. Ecco perché la pubblicità diventa luogo privilegiato di ricerca etnografica per uno studio della comunicazione nelle società complesse, così come la metropoli, il corpo, il cinema. Canevacci concentra quindi la sua indagine su testi multipli: spot pubblicitari, fumetti, film, performance e scenari metropolitani. Tutto questo senza spostarsi dal discorso essenziale che riguarda la rappresentazione in sé e in particolar modo l’autorappresentazione di ciò che nella tradizione delle scienze antropologiche viene definito l’oggetto di studio: come, infatti, la merce parla di sé, con il suo essere feticcio visuale, così l’oggetto, il feticcio per eccellenza dell’antropologia classica colonialista – il nativo – percepisce il desiderio di autorappresentarsi attraverso i linguaggi delle nuove tecnologie, senza più lasciare che questo compito – autoritariamente o dialogicamente che sia – venga esclusivamente svolto dall’etnografo. In questo senso, nel libro si può rinvenire una trama che connette l’opera sperimentale etnografica di Bateson ai filmati Xavante o Kayapò che autorappresentano la propria etnicità, rivendicando in tal modo, proprio attraverso la comunicazione visuale, il diritto a essere soggetto e non semplice oggetto dei processi storici.

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