Quanti dei nuovi antitumorali funzionano realmente?

farmaci
(Foto via Pixabay)

I nuovi farmaci oncologici costano cari, anzi carissimi. Ma non si bada a spese per regalare una speranza a persone in condizioni critiche, donare serenità e migliorare la qualità di vita dei malati e dei loro familiari. Certo però, i farmaci devono funzionare realmente, offrire un vantaggio clinico concreto per i pazienti. Altrimenti il meccanismo si inceppa: le molecole innovative si trasformano in costosissimi placebo, e le nuove speranze dei pazienti in semplici illusioni. Ma abbiamo prove convincenti che i nuovi farmaci funzionino realmente, che i vantaggi terapeutici bilancino la loro tossicità? Il dibattito su questo tema esiste, ed anima anima da decenni il mondo dell’oncologia. A riaprirlo è un nuovo studio pubblicato sul Bmj da un team di ricercatori inglesi, che ha analizzato i dati di efficacia delle nuove terapie oncologiche introdotte in Europa tra il 2009 e il 2013, con risultati impietosi: per quasi metà di questi nuovi farmaci non esisterebbero prove convincenti che migliorino la sopravvivenza o la qualità di vita dei pazienti.

Per capire di cosa stiamo parlando bisogna spendere due parole sulle procedure con cui vengono sperimentate le nuove molecole. Quando si effettua uno studio clinico si possono guardare diversi parametri per stabilire l’effetto di una nuova terapia. Esistono i cosiddetti endpoint veri, ovvero il vantaggio in termini di sopravvivenza o qualità di vita per i pazienti, che rappresentano misure dirette dell’efficacia della terapia.

Ma si può ricorrere anche a endpoint surrogati: parametri clinici o fisiologici collegati all’andamento della malattia, ma indirettamente. Per fare un esempio, lo studio può scegliere di misurare la sopravvivenza senza progressione della malattia, cioè quanti mesi passano prima che un tumore torni a crescere; oppure la response rate, cioè il tasso di risposta del tumore alla terapia calcolato misurando specifici biomarker; o ancora la sopravvivenza in assenza di recidive, quanto impiega un tumore a ripresentarsi dopo la conclusione della terapia.

Si tratta come è evidente di misure collegate alla qualità e quantità di vita guadagnata da un paziente, ma solo in modo indiretto. La loro affidabilità come misura dell’efficacia di un trattamento dipende da molte variabili (come il tipo di tumore o il design dello studio), ed è stata spesso al centro di aspri dibattiti. “In realtà in molti casi non è noto quanto questi endpoint surrogati siano correlati ad un reale prolungamento della vita”, spiega a Wired Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. “Per i tumori che hanno una sopravvivenza breve, qualche mese, il collegamento con un reale vantaggio per il paziente è molto scarso. Se parliamo invece di tumori che hanno tempi di sopravvivenza lunghi, allora iniziano a diventare più affidabili”.

Anche la stessa Ema, l’Agenzia europea del farmaco, considera la sopravvivenza generale come misura più affidabile dell’efficacia di un nuovo farmaco. Ma per le richieste di approvazione non è necessaria: i trial presentati per l’approvazione possono indagare anche endpoint surrogati. Per questo motivo gli autori dello studio hanno deciso di verificare per quanti farmaci approvati tra il 2009 e il 2013 siano state presentate prove dirette di un miglioramento in termini di quantità e qualità di vita. Le nuove molecole in questione sono 48, approvate con 68 indicazioni terapeutiche. Solo 18 di queste 68 richieste di autorizzazione sono state presentate con a supporto studi che avevano indagato la sopravvivenza generale dei pazienti, e solo 35 avevano informazioni sulla qualità di vita.

In totale, solo sette farmaci approvati (il 10%) avevano dimostrato un aumento significativo della sopravvivenza dei pazienti. E per 39 farmaci (il 57%) non sarebbe stato dimostrato in modo convincente alcun beneficio né in termini di sopravvivenza che di qualità di vita. In molti casi i farmaci sono stati approvati con riserva, chiedendo cioè alle case farmaceutiche di raccogliere dati sull’efficacia anche in seguito alla messa in commercio (così da velocizzare l’accesso ai farmaci per i pazienti). Ma anche in questo caso, dallo studio emergerebbe una situazione negativa: guardando ad un follow up medio di 5,4 anni dall’ingresso in commercio dei farmaci, solo 33 (il 49% del totale) avrebbero dimostrato di avere un effetto significativo sulla sopravvivenza o sulla qualità di vita dei pazienti.

“I dati che emergono dallo studio mi sembrano rappresentativi della situazione attuale – commenta Garattini – abbiamo approvato con troppa fretta troppi nuovi farmaci, e per molti di questi ci troviamo a non conoscere bene l’efficacia, le dosi ottimali, la durata migliore del trattamento, o in quali combinazioni sarebbe meglio utilizzarli. C’è insomma una gran confusione, e serviranno anni per mettere ordine, sempre che si assista ad un cambiamento nei processi di approvazione e monitoraggio dei nuovi farmaci”.

Un parere più ottimista è invece quello di Alberto Sobrero, direttore dell’Oncologia medica 1 dell’ospedale policlinico San Martino di Genova. Un esperto non certo di parte, visto che in passato a puntato il dito in più occasioni sul lievitare dei prezzi dei nuovi antitumorali e sui problemi di efficacia delle nuove molecole. “A mio parere lo studio fotografa al massimo una situazione vecchia, perché negli ultimi due anni abbiamo assistito ad un’autentica rivoluzione in campo oncologico”, ci racconta Sobrero. “Se nell’81 abbiamo avuto una tappa fondamentale con lo sviluppo della prima chemioterapia, e nel ‘98 la seconda grande rivoluzione con l’arrivo dei farmaci biologici, possiamo dire che il 2016 è stato l’anno della terza rivoluzione: l’immunoterapia”.

Per Sobrero quella che sta iniziando è un’autentica età d’oro per l’oncologia: “Vediamo pazienti con tumori che pochi anni fa avrebbero lasciato solo pochi mesi di vita, e che oggi invece nel 20-30% dei casi sono ancora vivi a due, tre anni di distanza”, continua l’esperto. “L’efficacia di questi nuovi farmaci non è in discussione. Semmai esiste un problema di prezzi, perché se i costi di sviluppo dei farmaci sono noti – 2, 3 miliardi di dollari per una nuova molecola – restano molto opachi i meccanismi con cui si traducono in prezzi. Ed è lì che si dovrà lavorare in futuro per garantire la sostenibilità del sistema”.

via Wired.it

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here