Quanto cibo sprechiamo e perché

Dal mese di gennaio è disponibile online un rapporto dell’Institution of Mechanical Engineers (IMechE) il cui titolo potrebbe far pensare a una qualche confusione di ruoli. Si chiama infatti Global food. Waste not, want not, e sembrerebbe più pertinente a una relazione preparata da una qualche onlus impegnata in lontani paesi oppure, addirittura, da istituzioni del tipo della Fao. Invece si tratta di un contributo ingegneristico per la soluzione di un problema di cui si parla poco pur essendo sotto gli occhi di tutti: lo spreco di cibo e dell’agricoltura.

Già nella seconda pagina, una breve citazione delinea le dimensioni dello sperpero: “Si stima che il 30 – 50% (ossia 1,2 – 2 miliardi di tonnellate) di tutto il cibo prodotto sul pianeta vada perduto prima di raggiungere uno stomaco umano”. A fronte di questa prima informazione, dobbiamo ammettere che pur avendoci pensato molte volte non ci eravamo mai resi conto delle dimensioni reali del fenomeno e, men che meno, le avevamo inquadrate in un contesto coerente. Si tratta del cibo (animale e vegetale) prodotto dell’agricoltura moderna, ossia di quell’agricoltura che certo abbisogna ancora di terre ed acqua, ma anche e soprattutto di energia.

Quell’agricoltura che prese piede all’incirca negli Sessanta del secolo scorso e, talvolta, viene associata alla cosiddetta Rivoluzione verde, oppure al Nobel per la Pace Norman Borlaug, in cui più che di varietà (di piante) si parla di cultivar (cultivated variety), per la cui buona riuscita sono indispensabili fertilizzanti e fitofarmaci, ossia quell’agricoltura in cui poco o nulla viene lasciato al caso o, se preferite, alla natura.

Grosso modo, fino alla metà del secolo scorso l’agricoltura era basata sulla disponibilità di terra fertile ben esposta al sole, di acqua in quantità adeguate, di fertilizzanti e capitali di investimento. Con l’opera di Borlaug entra in gioco la genetica, le nuove varietà presentano caratteristiche tali da poter resistere a condizioni climatiche/ambientali considerate sino ad allora proibitive, nonché rese strabilianti. Qualcuno (per esempio Henry Kissinger, nella conferenza della Fao sulla fame nel mondo, tenutasi a Roma nel 1974) all’epoca cominciò a vaneggiare riguardo la fine della fame nel mondo. Che non sia andata proprio così lo sappiamo tutti e lo conferma un recente rapporto della Fao, redatto in collaborazione con Ifad e Wfp, in cui si stimano in 870 milioni i denutriti che popolano la Terra, 16 milioni dei quali apparterrebbero ai Paesi cosiddetti sviluppati.

Quello su cui il rapporto IMechE richiama l’attenzione non è però l’aspetto biologico degli ibridi, quanto l’aspetto energetico dei fertilizzanti (metano) e dei fitofarmaci (petrolio) necessari, ossia evidenzia quanto l’attuale agricoltura sia diventata fortemente energivora. Si stima, infatti, che includendo tutti i diversi elementi del ciclo produttivo (fertilizzanti, fitofarmaci, trasporti e macchine agricole, irrigazione, conservazione), “siano necessarie in media 7 – 10 calorie per produrre 1 cal di cibo”, ed è questo un dato che si commenta da solo.

Da questo punto di vista, il rapporto evidenzia che una distinzione fondamentale tra l’agricoltura “tradizionale” e quella attuale consista nell’avere integrato il sempiterno contributo energetico solare con quello derivante dai combustibili fossili. Proprio questo aspetto dovrebbe, a nostro vedere, spingere ad una riflessione, nel momento in cui le istituzioni europee e nazionali supportano la crescita del fotovoltaico nella produzione elettrica sovvenzionandone la diffusione: ossia, nel campo agricolo si tende ad aumentare sempre più il peso degli idrocarburi, mentre nella produzione elettrica si tende a comprimere il loro uso.

D’altra parte, a fronte degli attuali 4.9 Gha (miliardi di ettari) dedicati ad usi agricoli, il rapporto individua in 10 Gha la disponibilità totale di terreni. Ma il documento ricorda anche che la costante crescita della quota di cibo animale (allevamento, la cui resa è molto inferiore a quella agricola-vegetale), specie nell’ambito dei Paesi sviluppati, sta determinando una sorta di competizione tra le diverse destinazioni d’uso possibili, tra cui restano da includere la parte da dedicare alla produzione di biomasse e quella destinata alla produzione delle energie alternative (ad esempio solare ed eolico). Anche in questo caso ci sembra verosimile ritenere che i territori attualmente impegnati per gli usi agricoli siano quelli migliori, mentre gli altri dovrebbero richiedere, per un’eventuale messa a coltura, l’ulteriore innalzamento del contributo di idrocarburi.

Per l’altra risorsa fondamentale, l’acqua, l’andamento è quello dello sfruttamento, sempre più spesso scriteriato, delle riserve disponibili: la relativa abbondanza ha disincentivato la diffusione di tecniche che ne consentano una gestione per lo meno razionale.

Se mettiamo ora insieme le analisi dell’IMechE con le informazioni disponibili in materia di inquinamento ambientale, non è difficile dedurre che la prima fonte di degrado dei terreni e delle falde idriche sia da individuare proprio nell’agricoltura, e questo si verifica per lo più nei paesi più avanzati, ove le richieste del mercato sostengono la conversione alle produzioni più “lussuose” oltre che alle monoculture più redditizie su scala mondiale.

L’ultimo punto su cui è utile soffermarci è quello degli sprechi, che si differenziano secondo la classe a cui appartengono i Paesi (il rapporto ne individua tre, corrispondenti ai paesi in via di sviluppo, a quelli avanzati e a quelli postindustriali). Per quanto riguarda la classe dei paesi postindustriali, ossia muniti di adeguato know how e delle necessarie infrastrutture, la fonte primaria di distorsione è costituita dai contratti che legano i produttori alla (grande) distribuzione, ovvero l’obbligo di fornire un quantitativo con determinate caratteristiche fisiche (diremmo di prima scelta) a una data prefissata spinge l’agricoltore a porre in essere una coltivazione sovradimensionata: nel Regno Unito il 46% delle patate coltivate non arriva al commercio minuto.

A questo primo sperpero se ne aggiungono altri, tra i quali risaltano le politiche di vendita, che spingono gli acquirenti ad acquisti sovrastimati rispetto le proprie capacità di consumo. In definitiva, il documento individua le ragioni principali dello spreco di risorse nel “consumismo, eccesso di ricchezza e di commercializzazione”.

Il rapporto, da ultimo, fornisce alcuni spunti per gestire la situazione, uno dei quali ci sembra particolarmente importante, quello dell’educazione. Crediamo, infatti, che solo un’educazione orientata in senso ecologico possa fornire al futuro cittadino gli strumenti idonei per resistere alle pressioni che oggi provengono da tutti i mezzi di comunicazione e, in primis, dalla televisione e da Internet, e che gli consentano di scegliere oculatamente tra i diversi possibili stili di vita.

Credits immagine: Merrick Brown/Flickr

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