Raffreddare il sole: quanto è pericoloso?

geoingegneria
Credit: Nasa

Il riscaldamento globale sembra sempre più ineluttabile. Gli sforzi per contrastare i cambiamenti climatici continuano a rimanere per lo più sulla carta, mentre i loro effetti si fanno sempre più evidenti. Per questo motivo, una parte della comunità scientifica inizia a sentire forte la tentazione di prendere il problema di petto: accanto alla riduzione delle emissioni, pianificare strategie con cui invertire in modo attivo gli effetti dell’inquinamento, con tecnologie che puntino a ridurre la radiazione solare che viene assorbita dal nostro pianeta. In inglese si chiama solar radiation management (srm), o anche solar engineering, e allo stato attuale si tratta di un campo di ricerca piuttosto divisivo.

Per i critici, il rischio è quello che la soluzione faccia più danni del problema, esacerbando gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, o producendo effetti nocivi tutti nuovi. Per i suoi fautori, l’ingegneria climatica è un importante piano B, da preparare con cura e tenere pronto nel caso in cui gli accordi internazionali in difesa del clima si rivelino inutili. Chi ha ragione? Impossibile a dirsi. Ma il fronte del sì negli ultimi mesi ha ottenuto una vittoria importante: il budget del governo federale americano per il 2022 prevede infatti la creazione di un gruppo di lavoro dedicato allo studio di rischi e opportunità del solar engineering, e alla creazione di linee guida ufficiali per il loro sviluppo. Un via libera inedito per il governo della principale economia del pianeta (che in passato si era sempre opposto alle discussioni in sede internazionale), che potrebbe dare una spinta decisiva allo sviluppo di queste tecnologie. Vediamo allora di cosa si tratta realmente, quali sono le promesse e i pericoli di questa “geoingegneria solare” e quali le strategie più promettenti.


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Ingegnerizzare il clima

Il concetto alla base della geoingegneria climatica srm è piuttosto semplice. Ogni giorno il nostro pianeta riceve energia dal Sole, sotto forma di raggi di luce. Una parte di questa energia viene assorbita dal sistema-pianeta, e poi in buona parte ri-irradiata nello spazio di notte, come radiazione infrarossa. Il resto viene riflesso dall’atmosfera, dalle nuvole e dalla superficie terrestre. Il particolare importante, in questo senso, è che di norma il bilancio energetico del nostro pianeta è più o meno in equilibrio: la quantità di energia che riceviamo è quasi identica a quella che rispediamo nello spazio. Qualunque cosa influenzi la quantità di energia che entra o che esce modificherà quindi, necessariamente, le temperature globali del pianeta.

È esattamente quello che sta avvenendo con il riscaldamento globale: l’effetto serra provocato dalle emissioni umane sta aumentando la quantità di calore che viene intrappolata dalla nostra atmosfera e non si dissipa nello spazio, e le temperature medie globali stanno aumentando di conseguenza. La soluzione che stiamo tentando di raggiungere al momento è quella di diminuire la quantità di gas serra che introduciamo nell’atmosfera, così da limitare la quantità di calore che verrà intrappolata in futuro dall’effetto serra, e mantenere l’incremento delle temperature a livelli “tollerabili”. Esiste però un’altra opzione, ben più radicale: aumentare la quantità di energia e calore che vengono riflessi nello spazio, così da riportare in equilibrio il bilancio termico del pianeta diminuendo la quantità di calore in entrata.

Come si fa?

Le possibilità ovviamente sono molteplici. Ma il metodo più discusso per diminuire la radiazione solare assorbita dalla Terra è chiamato stratospheric aerosol intervention (intervento con aerosol stratosferico), e prevede di rilasciare nella stratosfera una strato di particelle riflettenti, per rispedire al mittente una parte della radiazione solare che raggiunge il nostro pianeta. In qualche modo, si tratta di mimare quanto avviene naturalmente in seguito alle grandi eruzioni vulcaniche, che coprendo la terra di nubi e aerosol gassoso provocano il repentino abbassamento delle temperature. L’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, provocò ad esempio una diminuzione delle temperature medie di 3 gradi, facendo passare il 1815 alla storia come “l’anno senza estate”.

Uno dei progetti più avanzati in questo campo è quello portato avanti dai ricercatori di Harvard con il loro programma ScoPEx. L’obbiettivo è quello di testare la tecnologia utilizzando un pallone sonda, che dovrebbe rilasciare nella stratosfera particelle di carbonato di calcio e poi monitorare gli effetti in termini di radiazione incidente che viene riflessa verso spazio, e le interazioni chimiche con gli altri elementi presenti nell’atmosfera. Il primo test dal vivo era previsto per lo scorso anno in Svezia, ma più o meno all’ultimo momento il comitato etico dell’università americana ha deciso di annullare l’esperimento, sull’onda delle proteste di parte della comunità scientifica e delle popolazioni native dell’area in cui era pianificato il lancio. Nei mesi seguenti si era parlato di una nuova data di lancio prevista per giugno di quest’anno, ma al momento è impossibile confermare se il test sia stato svolto o meno.

Quali rischi?

A preoccupare una parte consistente della comunità scientifica sono le tante incognite di una strategia di cui è oggettivamente difficile prevedere gli esiti, una volta uscita dai laboratori e sbarcata nel mondo reale. Le sostanze chimiche immesse nell’atmosfera potrebbero ad esempio interagire con altri elementi già presenti, come l’ozono, e provocare reazioni chimiche dannose per l’atmosfera, il clima, o persino per la salute. Non è facile inoltre prevedere gli effetti che avrebbe la riduzione di luce solare sull’ambiente, in particolare sui vegetali che ne hanno bisogno per crescere: meno luce potrebbe ridurre la crescita di boschi e foreste, o, peggio, ridurre la resa dei terreni agricoli, mettendo a rischio la sicurezza alimentare di miliardi di persone.

Anche se tutto andasse come sperato, poi, si corre il pericolo di innescare un circolo vizioso che porterebbe a dipendere dalla geoingegneria climatica per evitare il collasso del pianeta: una ricerca del 2018 ha calcolato, ad esempio, che l’interruzione di un programma di solar geoengineering su ampia scala provocherebbe una ripresa del riscaldamento globale ad un ritmo 10 volte superiore a quello attuale, che probabilmente supererebbe le capacità di adattamento della flora e della fauna terrestri, con rischi inimmaginabili per la biodiversità.

Secondo i critici di questo approccio, sarebbe impossibile avere certezze sugli esiti senza mettere in piedi esperimenti su larga scala, che equivarrebbero ad un effettivo utilizzo di queste tecnologie. Se saltasse fuori qualche problema durante le fasi di test, insomma, sarebbe già troppo tardi per porvi rimedio senza pagare un prezzo altissimo. Gli effetti inoltre potrebbero rivelarsi disuguali nelle diverse aree del pianeta, aprendo al rischio di un futuro di disuguaglianza climatica. Ed è difficile immaginare chi dovrebbe prendere la decisione di ricorrere a simili strategie, visto che le conseguenze del suo utilizzo si rivelerebbero, necessariamente, globali: una singola potenza, come gli Usa, potrebbero decidere che vale la pena correre il rischio per tutti?

Altre strategie?

Se l’utilizzo di aerosol nella stratosfera è la metodologia più studiata di solar geoengineering, non è certo l’unica ad essere stata proposta. Un altro approccio ritenuto molto promettente viene definito marine cloud brightening (schiarimento delle nubi marine), e prevede di disperdere sale marino nella bassa atmosfera (in particolare sugli oceani) perché agiscano come nuclei di condensazione, dando origine a nubi che rifletterebbero poi la luce del sole lontano dalla Terra. Un’altra potenziale strategia è invece il cirrus cloud thinning (o assottigliamento dei cirri), che punta ad agire sui cirri, nubi presenti nell’alta troposfera che in alcune condizioni possono contribuire a intrappolare il calore irradiato dalla superficie terrestre, con risultati simili a quelli dell’effetto serra. La teoria prevede la disseminazione di microparticelle che possono agire come nuclei di congelamento, cioè sostanze che innescano la formazione di cristalli di ghiaccio nell’atmosfera, da rilasciare nelle zone di formazione dei cirri. Questo – teoricamente – dovrebbe portare alla nascita di nubi con una minore durata e una capacità inferiore di intrappolare il calore, aumentando quindi la quantità di energia che viene irradiata nello spazio, e riducendo di conseguenza la temperatura del pianeta.

Per entrambi di questi approcci, comunque, valgono molte delle obiezioni citate per lo stratospheric aerosol intervention. Diverso il discorso per una strategia proposta di recente dal team di ricercatori dell’Mit di Boston guidato dal nostro Carlo Ratti, che permetterebbe di limitare al minimo i potenziali effetti indesiderati e le incognite del solar geoengineering, al costo però di una complessità di realizzazione molto superiore. La proposta è quella di utilizzare una flotta di bolle per formare uno schermo nello spazio, che riduca la quantità di luce solare diretta verso il nostro pianeta. Le bolle spaziali sarebbero composte da uno strato sottilissimo di un materiale capace di sopportare le temperature e le condizioni dello spazio aperto, gonfiate direttamente nello spazio, e posizionate nel punto di Lagrange L1. Con una flotta delle dimensioni del Brasile, Ratti e il suo team calcolano di poter diminuire dell’1,8% la quantità di radiazione solare che raggiunge la Terra, abbastanza per controbilanciare completamente l’attuale aumento delle temperature causato dal global warming. Trattandosi di bolle, in caso di problemi basterebbe poi farle scoppiare per tornare in un attimo alla situazione di partenza. Le incognite ovviamente non mancano neanche in questo caso, e non serve spiegare quale sarebbe la complessità di una simile impresa. Ma se dovessimo trovarci realmente in una situazione di emergenza climatica senza uscita, almeno le bolle spaziali avrebbero il beneficio di non influenzare in alcun modo la biosfera e con la chimica dell’atmosfera terrestre.

A che punto siamo?

Fino ad oggi, i progetti di geoingegneria climatica volti a ridurre l’assorbimento di radiazioni solari da parte del nostro pianeta restano del tutto teorici. I limiti e le preoccupazioni che abbiamo citato, condivise da una buona fetta della comunità scientifica (e della società civile), hanno frenato il loro sviluppo, ma i tempi sembrano sempre più maturi per vedere qualche primo tentativo di applicazione. Si tratta di tecnologie di cui è complicatissimo prevedere gli esiti, ma tutto sommato estremamente facili da mettere in pratica. Per questo motivo, probabilmente, è sempre più necessario un framework internazionale che regoli il loro studio e il loro sviluppo, visto che il clima del pianeta è un tema globale per antonomasia. Il gruppo di lavoro del governo americano, che dovrebbe coinvolgere NasaNoaa (national oceanic and atmospheric administration), dipartimento dell’energia e altre agenzie federali, potrebbe essere un’occasione per fornire delle linee guida da proporre poi nel consesso internazionale. Un buon punto di partenza – scrive l’Mit Technology Review – potrebbe essere un rapporto pubblicato dalle National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine nel 2021, in cui gli autori sottolineavano la necessità di coordinare le attività in questo campo a livello internazionale, di concentrare gli sforzi sulla ricerca di base e non sull’applicazione di queste tecnologie, e di limitare gli investimenti pubblici ad una frazione del budget dedicato alla lotta ai cambiamenti climatici. Non resta che aspettare le prossime mosse del governo americano, dunque, per scoprire se saranno sufficienti a superare le ritrosie che per ora hanno affossato ogni tentativo di intavolare la discussione nell’ambito delle Nazioni Unite.

via Wired.it