Ragionevoli dubbi

Nuove vicissitudini legali mettono in crisi l’impianto della legge 40 sulla procreazione assistita: una recente ordinanza del Tribunale civile di Firenze ha sollevato altri dubbi sulla costituzionalità della normativa. Che la Corte Costituzionale è ora chiamata a sciogliere. Secondo l’ordinanza, i principi su cui la legge si basa non tutelano la salute delle donne. Le sentenze del Tribunale di Cagliari e del Tar del Lazio avevano già messo in discussione le linee guida redatte durante il precedente governo Berlusconi, che sono state poi modificate durante la scorsa legislatura.

Il caso che ha sollevato la questione riguarda una coppia milanese che ha richiesto una diagnosi pre-impianto in seguito alla fecondazione in vitro. La donna, infatti, soffre di esostosi, una malattia che porta all’accrescimento del tessuto osseo e che può essere trasmessa ai figli con una probabilità del 50 per cento. Lo scorso dicembre, il Tribunale di Firenze aveva già emanato una prima ordinanza con cui obbligava il centro medico Demetra (dove è avvenuta la fertilizzazione) a eseguire la diagnosi sugli embrioni per accertare l’assenza della malattia prima dell’impianto.

Ma la coppia ha preferito non proseguire con le analisi e chiedere di più: “Data la gravità della malattia e l’elevata probabilità che si possa trasmettere agli embrioni”, spiega a Galileo Gianni Baldini, legale della coppia e consulente dell’associazione Madre Provetta (che ha indetto oggi una conferenza stampa a Palazzo di Montecitorio), “i miei assistiti hanno richiesto che il numero di embrioni su cui svolgere l’analisi sia pari a sei, piuttosto che a tre, e che questi non siano impiantati contemporaneamente, come invece prescrive la legge 40”.

Non solo: la norma non consente di cambiare idea una volta avvenuta la fertilizzazione in vitro. La coppia invece chiede la possibilità di revocare il proprio consenso all’impianto, e di crio-conservare gli embrioni soprannumerari (altra eventualità esclusa dalla legge).

La nuova ordinanza ha giudicato fondate le motivazioni della coppia. La salute della donna, infatti, potrebbe essere messa in pericolo (contravvenendo all’articolo 32 della Costituzione), qualora la paziente fosse costretta contro la sua volontà a sottoporsi a terapie stressanti da un punto di vista fisico e psicologico. Inoltre, secondo il Tribunale, la fecondazione artificiale non rientrerebbe nei trattamenti sanitari obbligatori (Tso), per i quali non si può revocare il consenso.

“In questa circostanza, la tutela della donna ha avuto la priorità su una legge che non tiene conto delle caratteristiche delle persone e toglie al medico la possibilità di decidere l’alternativa migliore per il paziente”, sottolinea Baldini. Ora non resta che aspettare la decisione della Corte Costituzionale, che dovrebbe pronunciarsi entro otto mesi. (a.g.)

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