Referendum trivelle: una svolta verso le energie “dolci”?

Il prossimo referendum sulle trivellazioni non è un semplice quesito, peraltro dalla portata piuttosto limitata e relativo alla durata delle concessioni in mare. Difatti, la consultazione popolare del 17 aprile pone all’attenzione dell’opinione pubblica fondamentali scelte di politica energetica che investono direttamente il futuro delle nostre comunità. Con questo voto, infatti, i cittadini potranno contribuire – o meno, secondo il risultato – alla transizione verso fonti più pulite e “democratiche”. La scelta referendaria è difatti tra due modelli energetici sostanzialmente alternativi: quello accentrato basato sui megaimpianti e sulle fonti fossili e quello decentrato basato sulle energie rinnovabili e sulla microgenerazione diffusa.

Ma partiamo dai dati e da alcuni punti fermi.

Non vi è alcun dubbio che gli scenari energetici nazionali, ma anche europei e mondiali sia pure con numeri e cadenze diverse, vadano verso una progressiva, ma relativamente rapida, sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili. Bastino alcuni dati sulla situazione italiana:
• i consumi di petrolio si sono pressoché dimezzati negli ultimi 15 anni, come ammette la stessa Unione Petrolifera: dai 93 milioni di tonnellate del 2000 ai 57 milioni attuali, gli stessi valori di metà anni Sessanta;
• i consumi nazionali di gas naturale sono in caduta libera dal 2005, salvo una lieve impennata nel 2015, che comunque lascia il fabbisogno annuo (intorno ai 67 miliardi di mc) agli stessi valori della fine degli anni ’90 ; lo stesso incremento previsto anni fa nell’utilizzo nella produzione elettrica (in particolare con le centrali turbogas) è in decisa controtendenza, al punto che Enel prevede alla fine del 2014 la chiusura di 23 impianti termoelettrici (tra cui diverse centrali a gas) per 11.000 Megawatt;
• le fonti rinnovabili hanno avuto in pochi anni un incremento vertiginoso, grazie soprattutto agli impianti fotovoltaici ed eolici, tanto da dare oggi un contributo del 40% circa alla produzione elettrica, e del 20% circa ai fabbisogni globali di energia nazionali.

Alla fine dell’era fossile non contribuiranno solo le fonti rinnovabili, ma anche gli effetti sul piano economico dei sempre più stringenti vincoli ambientali, tra cui quelli scaturiti dalla recente Conferenza COP 21 di Parigi. Allianz, una delle maggiori compagnie assicurative al mondo, ha annunciato nello scorso novembre di voler abbandonare gli investimenti nelle fonti fossili. Secondo l’ultimo rapporto dell’ong Carbon Traker, con le politiche necessarie per frenare il riscaldamento globale sono a rischio 2.000 miliardi di dollari di investimenti in energie fossili, tra cui nuovi progetti per 1.300 miliardi di dollari per il petrolio e 459 miliardi per il gas.

Anche la Deutsche Bank ha recentemente pubblicato un report in cui si prevede che il calo della produzione di petrolio potrebbe essere dettato non da questioni legate alla disponibilità, ma alla regolamentazione ambientale. D’altro canto, secondo un rapporto CERES, organizzazione indipendente che si occupa di energia sostenibile, le aziende che producono e utilizzano petrolio e gas presentano un “rischio crescente”: questo anche a causa delle nuove tipologie di estrazione, e in particolare per le esplorazioni ed estrazioni in acque profonde, i cui rischi sono tristemente associati al disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum, che ha causato uno sversamento nel golfo del Messico di 64 mila barili di petrolio al giorno per vari mesi e danni stimati per 31 miliardi di dollari.

Infine, secondo un rapporto di Credit Suisse, “la maggior parte dei gruppi del petrolio e del gas investono anche nelle rinnovabili, con l’eolico, il solare e i biocarburanti come settori di intervento più comuni”. Tra questi, Eni, che ha convertito un impianto di Porto Marghera in bioraffineria (peraltro molto enfatizzata negli annunci pubblicitari) ed ha programmi di investimento in fotovoltaico e termodinamico nei propri siti industriali. Anche Enel va in questa direzione, e conta tra l’altro di convertire la centrale termoelettrica di Porto Tolle in una centrale a biomassa da 20 Megawatt, alimentata dai materiali di risulta del Parco del Po.

Persino molti paesi arabi, tradizionali produttori di petrolio, dopo la Conferenza COP21 di Parigi stanno rivedendo le proprie strategie e studiano alternative al petrolio ed al gas. Emirati Arabi, Iran, Kuwait, intendono ridurre il fabbisogno interno di fonti fossili, da destinare all’esportazione, e puntare sulle fonti rinnovabili, soprattutto quelle solare ed eolica (1).

Chi invita a votare “No” al referendum, d’altro canto, batte su due argomenti:  l’Italia ha bisogno di petrolio, che attualmente importiamo dall’estero; tanto vale quindi produrlo sul nostro territorio; con la fine delle estrazioni si metterebbe a rischio un interessante bacino occupazionale ed una promettente fonte di investimenti.

Entrambe le motivazioni appaiono poco convincenti.
Innanzitutto, è necessaria una fondamentale osservazione. Nella estrazione di fonti fossili, il profitto è riservato alle compagnie petrolifere, che godono tra l’altro di scandalosi sgravi fiscali. Le “aliquote” (o royalties) da versare allo Stato, che poi le versa a Regioni e Comuni (2) sono del 10% sulle quantità di petrolio e gas estratti sulla terraferma, mentre per le estrazioni offshore le royalties si differenziano dal 2012 in due aliquote: 10% sulla quantità di gas naturale estratto e 7% sul petrolio. Valori, neanche a dirlo, tra i più bassi d’Europa. Per di più, restano esenti dal pagamento di aliquote le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare; cioè, entro quei limiti è tutto gratis. Risultato? Nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi hanno evitato di versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni (3).

Nelle produzioni rinnovabili diffuse, al contrario, tutta la produzione con relativi vantaggi (risparmi energetici, incentivi, detrazioni ecc.) rimane al produttore ed alla comunità locale, i cui operatori (progettisti, installatori, costruttori di componenti, manutentori ecc.) sono coinvolti nell’investimento. Questa è la enorme differenza tra un modello energetico accentrato ed uno decentrato.

Una domanda sensata è: quanto potranno contribuire le fonti fossili nazionali di petrolio e gas al fabbisogno italiano complessivo? Il fabbisogno annuo nazionale di energie fossili (compreso il carbone) si aggira sui 120 Mtep (Milioni di tonnellate equivalenti di petrolio), su un fabbisogno totale (consumo interno lordo) di circa 160 Mtep (4). La produzione nazionale di petrolio e gas è di circa 11 Mtep (2015) (5) , solo il 7% circa del fabbisogno globale, di cui meno della metà da piattaforme marine; una quota molto modesta, ma che comunque contribuisce ad aumentare la pressione sugli ecosistemi marini (6).
E’ dunque legittimo dubitare che il gioco valga la candela; ritenere cioè che la disponibilità della esigua quantità di gas ricavabile dai giacimenti in questione possa valere l’inevitabile, ulteriore degrado dell’ambiente marino conseguente alle attività estrattive. Anche considerando la durata di questi giacimenti: assumendo le stime contenute nella Strategia Energetica Nazionale (marzo 2013) di 700 Mtep, si arriverebbe con i consumi annuali a 6 anni di autonomia. Molto pochi, specie se confrontati con i tempi di utilizzo delle fonti rinnovabili, gratuite e praticamente inesauribili.

Quanto all’impatto occupazionale, il confronto è impietoso per le fonti fossili, le cui attività sono intrinsecamente a basso tasso di occupazione, a differenza delle tecnologie rinnovabili. L’annuncio del referendum ha fatto lanciare appassionati (e fuorvianti) appelli per la temuta perdita di poche migliaia di posti di lavoro, che peraltro potrebbero essere convertiti alle necessarie bonifiche o ad altri settori energetici più innovativi. Tuttavia pochi, specialmente negli ambienti governativi, si sono preoccupati del bacino occupazionale sviluppatosi in questi anni intorno alle tecnologie rinnovabili, ora purtroppo falcidiato dalla guerra mossa da Renzi ai produttori del settore, e stimato da uno studio Althesys intorno a 50.000 unità nel 2013, un dato che potrebbe raddoppiare con una politica di sostegno delle fonti rinnovabili al 2030. Decisamente un impatto di un ordine di grandezza superiore, a parità di “peso” nella bilancia energetica, rispetto alle fonti fossili.

La debolezza delle ragioni del “no” lascia amaramente spazio a dubbi e supposizioni: quanto stanno pesando le influenti compagnie petrolifere nell’attuale politica di incentivazione delle fonti fossili, ormai residuali rispetto ad un futuro incentrato sulle fonti pulite? E quanto forti sono state queste sollecitazioni per far dimenticare al Governo il monito contenuto in un Rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (7) , per cui con l’attuale politica di sostegno alle fonti fossili (che ricevono nel mondo 4 volte gli incentivi delle fonti rinnovabili, non riusciremo a contenere al 2040 il riscaldamento globale entro i 2°C rispetto ai livelli preindustriali?

Forse alcune risposte arriveranno indirettamente dal basso, dai semplici cittadini, con la partecipazione al referendum. Una spinta democratica può sancire l’inizio della fine delle fonti fossili in Italia, e l’avvio di un processo di maggiore partecipazione alle scelte energetiche; una consapevolezza che le energie “dure”, come il grande fisico e analista americano Amory Lovins chiama le fonti fossili in alternativa a quelle rinnovabili “dolci”, hanno bloccato in Italia per più di mezzo secolo.

 

  1. Crolla il prezzo del petrolio: i grandi produttori investono nelle rinnovabili, GreenBiz.it, 21.01.2016
  2. Le somme incassate dallo Stato vengono in seguito distribuite tra le Regioni e i Comuni interessati dalle attività di estrazione degli idrocarburi ai sensi del decreto legislativo n.625/1996 e delle leggi n.140/1999, n.99/2009 e n.134/2012.
  3. Fonte: Sporco petrolio, dossier Legambiente, aprile 2016.
  4. Ministero dello sviluppo economico – La situazione energetica nazionale nel 2014.
  5. Ministero dello sviluppo economico – Produzione di idrocarburi anno 2015.
  6. Vedasi in proposito il Report Blue Growth Trends in the Adriatic sea 2015.
  7. IEA, World Energy Outlook 2015 (WEO 2015).

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