Remdesivir, il farmaco che l’Oms sconsiglia e che noi continuiamo a usare

remdesivir

Non c’è niente di male a tentare, quando mancano solide opzioni terapeutiche. Lo abbiamo fatto con l’idrossiclorochina, con le trasfusioni di plasma iperimmune, con antibioticivecchi antivirali, farmaci per le malattie autoimmuni. Dopo un anno di pandemia però quasi nulla si è dimostrato utile per aiutare i pazienti Covid-19, e come è giusto, i farmaci che non funzionano sono stati abbandonati. Ma c’è un caso più complesso, quello del remdesivir, un antivirale dalla storia lunga e travagliata. Niente di strano, intendiamoci, visto che è stato il primo (e rimane per ora l’unico) antivirale approvato per il trattamento dei pazienti malati di Covid-19. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, però,il remdesivir non funzionerebbe. L’Europa però continua a puntarci e da noi l’Agenzia italiana del farmaco ne prevede l’uso solo in casi selezionati e dopo un’attenta analisi del rapporto tra costi e benefici.

Storia remdesivir

La storia del remdesivir inizia più di dieci anni fa nei laboratori di Gilead Sciences, nell’ambito di un programma di ricerca portato avanti in collaborazione con i Centers for Disease Control and Prevention americani (Cdc) e lo Us Army Medical Research Institute of Infectious Diseases, indirizzato allo sviluppo di nuovi antivirali contro i virus a rna. Inizialmente, la molecola venne studiata per il trattamento dell’Hcv (il virus dell’epatite C) e del virus respiratorio sinciziale, rivelandosi però inutile contro entrambe le malattie. Rimase quindi nel portfolio farmaceutico dell’azienda in attesa di un’occasione, che arrivò con l’epidemia di ebola in Africa occidentale del 2014, quando venne rispolverata e sperimentata rivelando finalmente un’efficacia. Altri farmaci però si dimostrarono più utili, facendo tornare il remdesivir nel limbo. Le analisi svolte negli anni avevano comunque dimostrato che possiede un’ottima capacità di impedire la replicazione di molti virus a rna, ed era quindi solo questione di tempo prima che un qualche nuovo patogeno offrisse la chance per riportare il farmaco sul mercato.

La pandemia di Covid 19 si è rivelata un momento potenzialmente propizio. Il remdesivir è stato testato mostrando una qualche efficacia nei pazienti ospedalizzati per Covid-19, e in attesa di dati più robusti è stato approvato sia negli Stati Uniti sia, in forma condizionata, in Europa, vista la mancanza di alternative farmacologiche contro Sars-Cov-2. Nonostante la soddisfazione espressa dal mondo della scienza, le polemiche non si sono fatte attendere a causa del costo del farmaco: un ciclo di trattamento (5 o 6 fiale) costa infatti duemila euro per paziente, e deve essere effettuato necessariamente in ambito ospedaliero perché il farmaco viene somministrato per infusione endovenosa. Paesi come l’India hanno ottenuto la licenza per produrre il farmaco in versione generica, da destinare ai paesi in via di sviluppo, riuscendo a diminuire i costi fino a circa 50 dollari per fiala, mentre le nazioni più ricche si sono contese le scorte disponibili pagando il prezzo pieno. In Europa ha pensato all’acquisto centralizzato la Commissione europea, ottenendo inizialmente 200mila dosi per un totale di 70milioni di euro, e poi altri 500mila cicli di trattamento per poco più di un miliardo di euro, con un contratto firmato l’8 ottobre dello scorso anno.

Le polemiche

Ad appena una settimana dalla chiusura del secondo contratto della Commissione europea, l’Oms ha pubblicato i risultati preliminari del suo Solidarity Trial, un ampio studio clinico internazionale in cui sono stati sperimentati i più promettenti farmaci già disponibili sul mercato per il trattamento dei pazienti Covid-19. E i risultati sono stati purtroppo deludenti: nessuno dei farmaci testati si è rivelato efficace per ridurre la mortalità o anche solo la durata dei ricoveri.

Una conclusione molto diversa da quella dell’unico altro ampio studio clinico disponibile, il trial Actt-1 promosso dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) e dal National Health Institute (Nih) americani, che ha testato il farmaco in un trial randomizzato a doppio cieco su 541 pazienti (e 521 del gruppo di controllo). In quello studio il remdesivir aveva dimostrato di diminuire il tempo medio di degenza (da 15 a 10 giorni), le probabilità di miglioramenti clinici al 15esimo giorno dall’insorgenza dei sintomi, e anche la mortalità, con un rischio di morte inferiore di circa il 5% a 15 giorni e del 4% a 29 giorni.

I ricercatori dell’Oms hanno preso in considerazione questi risultati nel loro paper su Solidarity, facendo però notare che nel gruppo di trattamento di Actt-1 (i pazienti che hanno ricevuto il farmaco e non il placebo) per caso era contenuta una proporzione significativamente maggiore di pazienti con forme moderate della malattia (che non necessitavano di ventilazione meccanica o di ossigeno ad alti flussi all’inizio del trattamento). Una situazione che potrebbe aver creato un bias nei risultati e che potrebbe spiegare, almeno in parte, le differenze emerse nei due studi. In una metanalisi che ha preso in considerazione i risultati di SolidarityActt-1 e due altri studi più piccoli, i risultati in termini di mortalità sono comunque risultati statisticamente compatibili con un’efficacia minima o nulla del remdesivir.

Con in mano i nuovi dati forniti da Solidarity, l’Oms ha deciso di emanare una nuova raccomandazione negativa per l’utilizzo del remdesivir. Ma se per un altro dei medicinali testati nel trial Solidarity, l’idrossiclorochina, i risultati negativi hanno significato lo stop all’utilizzo nei pazienti con Covid-19, per il remdesivir la storia ha avuto un finale diverso. L’Ema ha dichiarato che avrebbe valutato i dati dello studio Solidarity per decidere se modificare l’indicazione di utilizzo del farmaco, e l’Aifa ha deciso di limitarne l’utilizzo solamente a casi selezionati dopo un’accurata valutazione del rapporto rischi/benefici.

Le linee guida italiane

Cosa si intende per casi selezionati? Si tratta di pazienti in cui la malattia è già abbastanza grave da meritare un trattamento farmacologico, ma che non siano ancora peggiorati al punto da rendere vano il ricorso a un antivirale. Oggi infatti la potenziale progressione di Covid-19 viene distinta in tre fasi. Una iniziale in cui la replicazione del virus produce sintomi influenzali, come febbre, malessere e tosse secca. Una seconda fase in cui si presenta la polmonite interstiziale che può portare all’insufficienza respiratoria. E quindi la terza, la più grave, caratterizzata dalla reazione eccessiva del sistema immunitario, la famosa tempesta di citochine, che rischia di causare la compromissione dei polmoni e di altri organi, e può portare al decesso. In quest’ultima fase della malattia non è più il virus a causare danni, e quindi l’antivirale, che agisce impedendone la replicazione, non ha più un razionale per il suo utilizzo. Allo stesso modo, nella fase uno dell’infezione non si può utilizzare il remdesivir sia per questioni di costi, sia perché si tratta di un farmaco a somministrazione ospedaliera, e quindi risulterebbe complesso da utilizzare su migliaia di pazienti in isolamento domiciliare.

È per la seconda fase quindi, e in particolare nei pazienti che mostrano sintomi compatibili con un peggioramento in direzione della terza, che viene attualmente permesso il ricorso al remdesivir. “Il farmaco andrebbe riservato all’utilizzo in pazienti ospedalizzati con polmonite e in ossigenoterapia ma che non richiedono il ricorso alla ventilazione meccanica e in cui la malattia è insorta da meno di 10 giorni”, spiega a Wired Claudio Mastroianni, docente di malattie infettive dell’università Sapienza e vicepresidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali. “In questi pazienti abbiamo infatti osservato una riduzione della degenza, delle giornate in ossigenoterapia e del rischio di necessitare di ventilazione meccanica”. Le indicazioni della letteratura scientifica – ammette Mastroianni – sono contraddittorie, ma secondo l’esperto in questa fase molti trial clinici sono stati svolti con una certa fretta che ne ha pregiudicato i risultati, e le osservazioni aneddotiche indicano una qualche efficacia del farmaco che, anche considerata la totale mancanza di alternative terapeutiche, giustifica il suo utilizzo in questo sottoinsieme di pazienti.

Per l’Oms non esistono prove di efficacia, e l’antivirale rappresenta quindi un rischio inutile (non è privo di effetti collaterali) e uno spreco di risorse. Mentre per l’Europa si tratta di un investimento in salute. L’Italia sembra schierata con la Commissione europea, visto che nel decreto Sostegni è stato previsto un fondo speciale proprio per l’acquisto del remdesivir, pari a 300 milioni di euro per il 2021, con cui si prevede di trattare 10mila pazienti ogni mese.


Mini-guida sui vaccini contro Covid-19


E se non funzionasse?

Quello che si rischia, si legge in un articolo commissionato dal British Medical Journal, è di rivivere la vicenda, poco edificante, del tamiflu, l’antivirale di cui ai tempi dell’aviaria fecero scorta tutti i grandi paesi del mondo (l’Italia investi circa 200 milioni di euro), per poi scoprire a più di un decennio di distanza che aveva effetti minimi contro l’influenza. Uno dei tanti episodi da cui avremmo dovuto imparare qualcosa sulla gestione delle pandemie (visto che anche durante un’emergenza sanitaria le risorse non sono certo infinite), e che rischia invece di ripetersi se nei prossimi mesi verrà confermata la scarsa efficacia del remdesivir. Con una differenza non da poco: un ciclo di tamiflu costava circa 30 euro, mentre un ciclo di remdesivir attualmente lo paghiamo poco più di duemila euro a paziente.

Anche per questo, un articolo pubblicato a dicembre su Lancet suggeriva di valutare la possibilità di negoziare un accordo basato sul cosiddetto payment-by-result, un regime (già utilizzato con moltissimi farmaci costosi) in cui lo stato paga il farmaco all’azienda produttrice solo nei pazienti in cui ottiene il risultato atteso. Una formula che anche Mastroianni reputa auspicabile, ma che secondo l’infettivologo si potrà negoziare realisticamente solo tra qualche mese, quando i vaccini e la bella stagione ci avranno (auspicabilmente) aiutato a uscire dall’emergenza. Anche se a quel punto, si spera, del remdesivir avremo meno bisogno.

via Wired.it