Ricerca, gli scienziati italiani hanno speso 2 milioni di euro in pubblicazioni inutili

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(Foto via Pixabay)

Quanto costa la falsa scienza? Oltre 2,5 milioni di dollari (circa 2,23 milioni di euro) solo in Italia, pare. Alcuni ricercatori, tra cui Mauro Sylos-Labini dell’università di Pisa, hanno condotto un’indagine su quella che dovrebbe essere la punta di diamante della ricerca italiana, scoprendo che il 5% degli gli aspiranti professori universitari ha pubblicato almeno una volta su riviste scientifiche predatorie, cioè quelle che pubblicano (a pagamento) la qualunque millantando rispetto degli standard e controlli di qualità – in realtà inesistenti o quasi. Che sia stato fatto per ingenuità o con la consapevolezza di averne un vantaggio, si tratta di uno spreco di risorse e di dati, denunciano gli autori della ricerca, che mette oltretutto in discussione i criteri stessi della valutazione della ricerca scientifica.

Nell’articolo appena pubblicato sulla rivista Research Policy, Sylos-Labini e i suoi colleghi dell’Università di Warwick (Inghilterra) e di Aalto (Finlandia) hanno analizzato i curricula dei 46mila professori e ricercatori italiani che hanno partecipato alla prima edizione dell’Abilitazione scientifica nazionale del 2012-13 (un passaggio indispensabile per poter accedere ai concorsi per diventare professore nelle università del nostro paese), estrapolando i dati relativi alle pubblicazioni.

In particolare gli autori volevano quantificare il fenomeno delle pubblicazioni sui cosiddetti predatory journal nel nostro paese, quelle riviste (qui trovate un nostro approfondimento) che dietro compensi più o meno modesti (la maggior parte delle riviste scientifiche richiede una quota per sostenere il processo di peer-review, di pubblicazione e archiviazione) pubblicano articoli di tutti i tipi, promettendo ma non rispettando gli standard tradizionali dell’editoria scientifica. Col risultato che spesso le ricerche pubblicate sono di dubbio o nullo valore – ma pur sempre pubblicazioni. Esistono liste nere che elencano i titoli di simili giornali e una delle più famose è quella stilata da Jeffrey Beall, l’intraprendete bibliotecario dell’Università del Colorado che, nonostante le successive critiche, ha contribuito a dare un’idea del fenomeno.

Dalla ricerca di Sylos-Labini e colleghi è emerso che su circa 1,8 milioni di articoli, poco meno di 6mila sono stati pubblicati su riviste incluse nella lista nera di Beall, e giudicate inaffidabili secondo parametri bibliometrici utilizzati da Google Scholar. Si parla dunque di 2.225 ricercatori, il 5% del totale degli aspiranti professori, che hanno riportato nel proprio Cv almeno una pubblicazione su una rivista predatoria. Tradotto in cifre, fatta una media di 440 dollari di spesa (quasi 400 dollari) ad articolo, significa oltre 2,5 milioni di dollari (gran parte presumibilmente prelevata da fondi di ricerca pubblici) gettati al vento.

Ci sono differenze nei diversi settori di ricerca. La maggior parte delle pubblicazioni predatorie interessa il settore del management, dell’economia e della finanza, ma lo spreco di risorse maggiore sembra risiedere nell’area medica, dove i ricercatori possono arrivare a spendere fino a 2.500 dollari (oltre 2.200 euro) per pubblicare un singolo articolo.

Una domanda sorge spontanea: perché? Gli autori fanno rispondere gli stessi ricercatori del campione attraverso un questionario anonimo. La maggior parte di chi ha incluso nel proprio Cv pubblicazioni predatorie dichiara di “esserci cascato“, di aver ingenuamente creduto alla serietà della rivista o di non aver fatto i dovuti controlli. Altri, invece, ammettono di aver sfruttato la presenza di alcune di queste testate nella whitelist di motori come Scopus per aumentare il proprio impact factor (un punteggio con il quale si giudica l’attività di un ricercatore) e raggranellare valutazioni positive.

“I costi monetari in realtà sono la classica punta dell’iceberg”, ha commentato Sylos Labini. “Il fatto che molti ricercatori e professori pubblichino articoli su queste riviste e le inseriscano nei loro curricula dimostra che ci sono enormi problemi nella valutazione della ricerca. I nostri risultati suggeriscono infatti che quando questa viene fatta da ricercatori poco esperti questi articoli possono persino essere valutati positivamente”.

Via: Wired.it

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