Il 7 novembre sarà la Giornata Mondiale della Scienza per la Pace e lo Sviluppo. L’Unesco ha deciso di celebrare la ricorrenza a Genova, durante l’ultima giornata del Festival della Scienza (26 ottobre-7 novembre), con una tavola rotonda organizzata in collaborazione con l’Israeli-Palestinian Science Organization (Ipso). “Perché la storia ci insegna che in molti casi la cooperazione scientifica ha preceduto la politica nello stabilire rapporti di pace”, come ha sottolineato Diana Malpede, responsabile scienza e pace dell’organizzazione internazionale durante la conferenza di presentazione della kermesse genovese tenutasi presso il Circolo della Stampa estera, a Roma lo scorso 11 ottobre. In quell’occasione abbiamo incontrato Hasan Dweik, professore di scienza e tecnologia dei polimeri all’Università di Al-Quds e co-direttore dell’Ipso.
Professor Dweik, come è nata l’idea dell’Ipso?
“Dall’esigenza di promuovere la pace in Palestina. Era il 2002, in occasione della giornata internazionale della scienza organizzata dall’Unesco, Sari Nusseibeh, che allora era preside dell’Università di Al-Quds e Menahem Yaari, presidente dell’Accademia delle scienze israeliana, insieme a Torsten Wiesel, premio Nobel per la medicina nel 2001, ebbero questa idea. Tornati a casa mi chiamarono immediatamente come co-direttore insieme a Dan Bitan, israeliano, per scrivere il regolamento. Nel 2003 abbiamo dato vita al consiglio scientifico, dove siedono ben 7 Nobel coordinati da Wiesel, e alla fine dell’anno, per mantenere la giusta neutralità, abbiamo registrato la nostra organizzazione a Bruxelles”.
Come agisce Ipso?
“Attraverso bandi di concorso aperti a gruppi congiunti di ricercatori palestinesi e israeliani, ma siamo aperti alla partecipazione dei ricercatori di altre nazioni arabe: Libano, Giordania, Siria. Nel 2004 abbiamo lanciato la prima opportunità di finanziamento e abbiamo ricevuto 73 progetti per ricerche nei campi più diversi: dall’agricoltura alle malattie cardiovascolari, dalle nanotecnologie alla salute ambientale. I progetti si sviluppano su tre anni. Con il primo bando abbiamo potuto finanziare nove ricerche per un investimento totale di 300 mila dollari”.
Da dove arrivano i finanziamenti?
“Dall’Unesco, da fondazioni private statunitensi e da accordi che abbiamo sottoscritto con numerose accademie delle scienze e università europee. Grazie al Ministero degli Esteri francese, per esempio, abbiamo finanziato progetti nelle nanotecnologie. Con l’Università di Roma “La Sapienza”, invece, abbiamo stabilito un programma di cooperazione per la realizzazione di un Master in scienze sociali e politiche umanitarie. L’accordo prevede che 20 studenti israeliani e 20 palestinesi svolgano i primi quattro mesi di studio nelle loro università e poi trascorrano altri quattro mesi a Roma per finire gli studi e ottenere il diploma. Il programma, finanziato dall’Unesco, è iniziato l’anno scorso, e speriamo di poterlo ripetere anche quest’anno”.
In che modo la scienza aiuta la costruzione della pace?
“Crediamo che incontrarsi, lavorare insieme, stabilire delle relazioni possa contribuire attivamente al processo di pace. È necessario formare la cultura della pace e in questo gli scienziati hanno un ruolo importante da giocare allargando il network del dialogo. Dietro l’incontro fra due professori, per esempio, c’è il contatto fra due gruppi di persone: tecnici di laboratorio, assistenti e anche studenti”.
Ma ricercatori palestinesi e israeliani lavorano effettivamente insieme?
“Ogni ricercatore lavora nella propria università ma i progetti prevedono che il gruppo si riunisca a intervalli regolari. Certo, la situazione politica della Palestina non aiuta lo spostamento delle persone: per i palestinesi non è facile raggiungere le università israeliane, non sono liberi di muoversi e viaggiare. A volte riusciamo a ottenere dei permessi speciali; altrimenti ci viene incontro la tecnologia, Internet prima di tutto”.
Lo scienziato può avere un ruolo politico?
“Ogni ricercatore vive due dimensioni. Quella del laboratorio e quella pubblica, della condivisione. Quando partecipiamo ai workshop e incontriamo gente straniera parliamo della nostra esperienza, raccontiamo di palestinesi e israeliani che lavorano insieme; il nostro esempio ha un valore politico, è già portatore di pace. Il fatto che noi si riesca a collaborare nonostante le avversità porta la comunità internazionale a riflettere sulla pace possibile. In questo modo cerchiamo, anche se indirettamente, di rovesciare il pensiero delle persone. Non solo all’estero, anche in Palestina. Tra due settimane, per esempio, arriverà la mostra didattica sulla matematica che l’Università Al-Quds ha realizzato insieme alla Città della Scienza di Napoli e il Museo della Scienza Bloomfield di Gerusalemme. L’esposizione prima è stata in Italia per tre mesi, poi in Israele per sei e ora rimarrà per sempre a disposizione dei bambini palestinesi. Ecco, speriamo che esempi come questo aiutino a comprendere che c’è un margine per la collaborazione”.
Cosa pensa del vostro esperimento la classe politica palestinese? E l’opinione pubblica?
“Quando abbiamo iniziato le autorità palestinesi non ci vedevano di buon occhio. Dicevano che non era quello il momento di iniziare a collaborare, che l’atmosfera non era propizia. Ma se avessimo dovuto aspettare l’inizio del processo di pace avremmo rischiato di non cominciare mai. Al contrario dobbiamo pensare di poter contribuire alla costruzione della pace. Tuttavia, vista l’occupazione del territori palestinesi da parte di Israele, l’atteggiamento generale in Palestina è contrario alla cooperazione. L’opinione pubblica poi è spaccata a metà: da una parte ci sono gli scettici e dall’altra quelli che pensano che la scienza è per tutti, non è schierata, è un linguaggio universale. Ma si tratta di una minoranza, purtroppo. La maggior parte delle persone non si accorge come un’iniziativa come la nostra aiuti a costruire infrastrutture, università, a promuovere lo sviluppo e allo stesso tempo aiuta la gente a comunicare”.
In che modo?
“Perché per regolamento il 70 per cento del budget dei progetti finanziati deve andare alla parte palestinese. In questo modo si possono sviluppare le infrastrutture in termini di risorse umane, di apparecchiature, di servizi. E si contribuisce a colmare la differenza che c’è fra la capacità di produrre ricerca delle due parti. Le università palestinesi vanno avanti fra enormi difficoltà, i finanziamenti sono ovviamente molto scarsi, e non ci sono fondi allocati per la ricerca in maniera specifica”.