Risorse inespresse

    Claudia Bordese, Enrico Predazzi, Nicola Vittorio
    Innovare, crescere, competere. Le sfide del dottorato di ricerca
    Il Sole 24 ore, pp. 138, euro 24,00

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    Phd nel mondo anglosassone, dottori di ricerca in Italia, comunque li si chiami i giovani che raggiungano il più alto titolo della formazione universitaria sono la risorsa da valorizzare per innescare la crescita di un paese. Insomma, la chiave di volta dell’innovazione, l’anello di congiunzione tra mondo accademico e imprenditoria. Tanto più se si pensa che ci troviamo in una realtà dove la ricerca di prodotti e processi formativi innovativi è la base della crescita economica e sociale. Peccato che il dottorato di ricerca paghi lo scotto del basso riconoscimento del nostro paese per scienza e ricerca, sottopagato e sottoutilizzato, considerato un passaggio verso la carriera universitaria più che come traino di crescita economica e valorizzazione di talenti.

    Il volume “Innovare, crescere, competere” fotografa con dati e tabelle la situazione degli studi dottorali in Italia, la mobilità della ricerca e la sua integrazione con quella internazionale, e le prospettive occupazionali dei dottori, per mettere in risalto la necessità di interventi urgenti. Anche se ricca di talenti, infatti, l’Italia è carente dal punto di vista degli investimenti, anche per lo scarso sostegno del settore privato a quello pubblico. Il rischio è quello di non riuscire a competere non solo con altri paesi dell’Unione Europea ma soprattutto con Cina e India, potenze emergenti che sfornano sempre più risorse umane qualificate e a costi estremamente contenuti.

    Il confronto con altri paesi colloca l’Italia in coda alla classifica per numero dei ricercatori e dei dottori di ricerca, oltre che per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Da noi la spesa per R&S sul prodotto interno lordo (Pil) è cresciuta a partire dagli anni Ottanta a un tasso medio annuo del 2,1 per cento, subendo dal 2003 una battuta d’arresto, dal 1,16 per cento del 2002 all’1,13 del 2004. La debolezza emerge al confronto con altri paesi europei: se nel 2005 in Svezia il rapporto tra la spesa in R&S e il Pil è stato quasi del 4 per cento e in Finlandia del 3,5, l’Italia registra performance inferiori anche dei grandi partner comunitari come Francia, dove il rapporto tra spesa per R&S e Pil è del 2,1 per cento, Germania con 2,5 per cento e Gran Bretagna con l’1,7. Fanno meglio di noi anche Repubblica Ceca e Slovenia (1,4 e 1,5 per cento). Se si guarda al tasso di crescita della spesa per R&S in rapporto al Pil, esso è rallentato nell’Ue dal 2000 al 2005, fino a essere prossimo alla crescita zero: un ritmo che permetterà di raggiungere nel 2010 solo il 2,2 per cento, ancora lontano dall’obiettivo di Lisbona fissato al 3 per cento. Al contrario, la Cina sta crescendo a un tasso più alto, con un incremento annuo medio del 9,8 per cento della spesa per R&S/Pil.

    Entrando nel dettaglio dei dottori di ricerca, grazie a una forte crescita tra il 1999 e il 2004, l’Italia è avanzata nella classifica in valori assoluti (8.346 nel 2004) e ha ridotto le distanze con gli altri paesi sul numero di dottori per milioni di abitanti. Ma la migliore misura del reale interesse di un paese per il dottorato di ricerca è il rapporto tra il numero di dottori e la popolazione in età di conseguimento del titolo, cioè quella 25-34 anni. Qui l’Italia, anche se in crescita rispetto agli anni precedenti, torna a occupare l’ultimo posto in classifica: solo 0,7 giovani su 100 tra i 25 e i 34 anni termina la propria istruzione con questo titolo. Ciò a causa dello scarso investimento nel livello dottorale da parte delle istituzioni oltre che della ridotta considerazione che ne hanno i giovani laureati e il mondo dell’imprenditoria. Terminato il ciclo, i dottori di ricerca finiscono per lavorare per lo più nel mondo accademico, privando il tessuto produttivo del paese delle risorse migliori per innovarlo. E, cosa ancor peggiore, degli oltre 60 mila dottori di ricerca prodotti nel nostro paese dal 1987 al 2005, due terzi circa lavora nelle università o negli enti pubblici di ricerca, ma la metà con contratti precari, a volte neanche censiti. Sottopagati e sottoutilizzati, dopo che sono costati allo stato 500 mila euro all’anno, alcuni ripiegano su lavori che non hanno a che fare con la ricerca, altri emigrano in altri paesi, a tutto danno dell’economia del paese.

    Cosa fare allora? Se si considera che le economie più salde sono quelle che hanno puntato sulla ricerca e quindi sull’istruzione terziaria e dottorale, scrivono gli autori del volume, il problema italiano va affrontato con contratti stabili, aumenti di retribuzione, più risorse per la R&S e un maggior riconoscimento del ruolo del dottorato. Questa rivalutazione deve impegnare in primo luogo i governi nazionali, ma trovare supporto anche nelle linee guida comunitarie che devono uniformare e semplificare le norme e le procedure dei dottorati portando al conseguimento del titolo di “dottorato europeo”. Una strada insomma che, facilitando la mobilità dei talenti e la sinergia di conoscenze, renda di nuovo competitiva la ricerca europea.

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