Schermi irresistibili

Sulla pervasività delle nuove tecnologie digitali nella vita di ciascuno di noi, e soprattutto dei più giovani, nessuno avrà dubbi. Siano computer, smartphone, o console per videogiochi, è impossibile non confrontarsi con “schermi” di ogni tipo, con la valanga di informazioni a disposizione, con la possibilità quasi infinita di contatti instaurabili, con i mondi virtuali di giochi d’ogni tipo. Per gli immigranti digitali (come chi scrive) gli interrogativi su queste tecnologie si moltiplicano, specie se si è in contatto con nativi digitali per ragioni professionali o familiari. E si finisce con l’oscillare tra la paura che le lunghe ore trascorse chattando o giocando davanti a uno schermo inebetiscano i nostri ragazzi e l’entusiasmo verso un presunto sviluppo di capacità “smanettatorie”, sintomo inequivocabile di superiori capacità di utilizzare i nuovi mezzi.

Il libro di Elena Pasquinelli Irresistibili schermi. Fatti e misfatti della realtà virtuale (Mondadori università, 2012, pp.326) ci offre una riflessione approfondita ed ampia sul tema in questione e, tutto sommato, ci tranquillizza.

Pasquinelli è una giovane e brillante filosofa, una di quelle ricercatrici che tengono alta la reputazione italiana all’estero; lavora presso l’Ecole Normale Supérieure di Parigi e nella Fondazione La mâin à la pâte, un’istituzione francese che si occupa dell’educazione scientifica, di cui si è già scritto su questa rubrica. I suoi studi sulle scienze cognitive applicate ai problemi dell’educazione e delle nuove tecnologie l’hanno indotta ad affrontare il tema della fascinazione, appunto irresistibile, che tutti i tipi di schermi esercitano sull’essere umano, utilizzando nella sua analisi un approccio cognitivo-evoluzionista.

Il punto di partenza di Pasquinelli è il superamento della posizione manichea sulle tecnologie digitali, che oppone su due fronti incomunicabili chi le considera come il male assoluto (soprattutto verso i giovani e la loro formazione) e chi le considera come il bene assoluto. Nel corso della sua riflessione l’autrice non si accontenta di esprimere un giudizio equilibrato, maturato dopo aver messo in evidenza luci ed ombre di videogiochi e internet, ma va oltre: cerca di spiegarci il “come”, il modo in cui gli schermi interagiscono con i nostri interessi naturali, le nostre capacità di imparare dall’esperienza, fino a che punto assecondano la nostra natura umana o ci trasformano. Ecco perché dico che si tratta di un libro tranquillizzante. La consapevolezza che si raggiunge dopo la sua lettura è, infatti, rassicurante nella misura in cui ci rassicura conoscere ciò che abbiamo di fronte.

Questo effetto è ottenuto anche (anzi soprattutto) grazie all’analisi di moltissimi esperimenti condotti prevalentemente nel campo delle scienze cognitive, che avrebbero dovuto dimostrare questa o quella tesi – a volte anche enunciazioni che hanno assunto un valore mitico, come quella dei presunti effetti miracolosi della precoce esposizione alle note di Mozart sulle capacità cognitive umane – e che invece spesso non dimostrano un bel niente.

A questo proposito, Pasquinelli mette in guardia sulla limitatezza della ricerca empirica, dovuta al fatto che lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali sono ancora piuttosto recenti. Inoltre gli esperimenti fin qui condotti non sono spesso confrontabili, utilizzando standard metodologici e riferimenti teorici diversi. Ciononostante, anche arrivare ad una “ammissione d’ignoranza”, sostiene Pasquinelli, significa stabilire un punto fermo e fare chiarezza tra tanti miti che nell’epoca dell’informazione di massa prendono piede con facilità.

La prima parte del volume è dedicata ad esplorare le principali paure collegate all’uso degli schermi: la dipendenza e la violenza. Per entrambe le questioni i mass media hanno veicolato interpretazioni di fatti di grande risonanza, come il fenomeno degli hikikomori giapponesi (i ragazzi che si isolano nella propria stanza per mesi con il computer e la TV come uniche compagnie) o la strage di Columbine negli Stati Uniti, attribuendo responsabilità all’abuso di videogiochi e computer. Ebbene, Pasquinelli si impegna nello spezzare il facile (ed arbitrario) rapporto di causalità tra una notevole esposizione alle nuove tecnologie digitali e lo sviluppo di cyber-dipendenze o l’assuefazione alla violenza.

Nell’analizzare, per esempio, gli esperimenti internazionali (American Psychiatric Association, e non solo) che avrebbero dovuto rivelare l’esistenza del concetto di dipendenza da videogiochi o da Internet attraverso il confronto con il concetto di dipendenza da sostanze, l’autrice evidenzia come in realtà nella maggior parte di questi esperimenti non sia possibile distinguere le cause dagli effetti; “Internet modifica il cervello” o “un certo tipo di cervello predispone alla cyber-dipendenza”? Sotto esame critico vengono posti soprattutto quegli studi che si limitano a stabilire correlazioni tra grandezze, capaci solo, nel migliore dei casi, di trovare “che due condizioni si danno insieme”, ma non certo di decidere l’esistenza di una relazione causa-effetto, né l’esistenza di una terza condizione che provochi le prime due.

Detto questo, però, la ricercatrice si impegna nel mettere in luce in che modo gli schermi esercitino uno straordinario fascino sulle nostre menti. Intanto esistono ragioni profondamente legate alla nostra storia evolutiva: gli stimoli rimandati dagli schermi sono quelli che il cervello umano nella evoluzione della specie ha imparato a considerare vitali per la sopravvivenza, cioè luci, suoni, colori, movimento. Ma anche le connessioni causali tra eventi, di cui abbondano i videogiochi e la cui ricerca affannosa è un tratto caratteristico del nostro cervello, sempre frutto della nostra storia evolutiva, e che tuttavia porta con sé spiacevoli effetti collaterali, come quello di credere nella “profezia” Maya, tanto per restare a fatti recenti.

Insomma nei videogiochi ci sarebbe una concentrazione di stimoli piacevoli e immediati, con l’effetto complessivo di suscitare sensazioni di piacere analoghe a quelle di una torta al cioccolato.

Sgombrato il campo dalle paure più basiche che girano attorno a queste tecnologie, la seconda parte del libro mette alla prova l’idea che siamo in presenza di vere e proprie mutazioni cognitive generate dagli schermi e l’idea che videogiochi e simili siano stati introdotti con qualche utilità in campo educativo.

Anche in quest’ultimo caso Pasquinelli mette in guardia sulle difficoltà di misurare gli effetti delle tecnologie digitali nel settore educativo, vista la varietà di pratiche e prodotti esistenti, che esporrebbero al rischio di “generalizzazioni difficilmente difendibili”. Anche in questo caso, tuttavia, bisogna fare i conti con l’idea che le nuove tecnologie “rappresentino un’opportunità di rinnovamento dell’educazione”. A questo proposito Pasquinelli sembra abbracciare una posizione alquanto scettica, parla infatti di “chimera” dei videogiochi educativi. Ma certo alcune sue osservazioni puntuali, che rimandano ad aspetti strutturali dei videogiochi educativi sono interessanti e possono rivelarsi utili nella valutazione di prodotti specifici.

Per esempio, Pasquinelli esplora il ricorso alle “situazioni concrete” su cui si basano videogiochi educativi e serious games, dimostrando  come il ricorso ad esse non faciliti automaticamente l’apprendimento. A tal proposito l’autrice racconta un significativo esperimento al quale furono sottoposti negli anni ’80 alcuni studenti universitari messi davanti al seguente problema: “un generale sta studiando la migliore strategia per dare l’attacco a una fortezza che si trova al centro di una raggiera di strade; le strade sono state minate ed è impensabile far passare un gruppo numeroso di uomini su di esse senza incorrere in perdite eccessive. Gli studenti cercano la soluzione, ma se non riescono a trovarla, viene fornita loro: dividere l’esercito in piccoli gruppi, ognuno dei quali prenderà una strada diversa per convergere sulla fortezza simultaneamente”.

Le difficoltà nascono quando però agli stessi studenti si pone un altro problema: “un medico si trova nella difficile situazione di dover intervenire su un paziente che soffre di un cancro allo stomaco; il genere di raggi di cui dispone è in grado, se utilizzato ad alta intensità, di distruggere il tumore, ma rischia al contempo di distruggere anche il tessuto circostante; se usati a debole intensità i raggi non sono distruttivi, né per i tessuti sani né per il tumore”. In questo caso, spiega Pasquinelli pochi studenti capiscono da soli che, come il generale, anche il medico deve dividere le sue forze e farle convergere da punti diversi sulla stessa zona. Ma se agli studenti si svelano analogie nella struttura dei due problemi, il 90% è in grado di risolvere il secondo.

Imparare attraverso il gioco si può, conclude Pasquinelli, solo se si affianca lo studio del caso concreto all’acquisizione di strategie meta-cognitive, come la necessità di comprendere la struttura profonda di un problema prima di risolverlo e di individuare analogie di questa struttura tra problemi apparentemente diversi.

Credits immagine: ebayink/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato con il titolo “L’irresistibile fascino dello schermo” sul numero di febbraio 2013 di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here