Guidandoci con racconti di vita ed esperienza professionale, Gianfranco Pacchioni, docente di Chimica dei materiali all’Università di Milano, ci accompagna nei luoghi dove si produce conoscenza scientifica, rilevando le potenzialità e i limiti dei diversi obiettivi di ricerca e mettendo in evidenza come vi siano vincoli di segretezza sempre più stringenti anche nei settori sostenuti dai finanziamenti pubblici.
Fino a non molto tempo fa il regno del sapere era l’Università, che pubblicava i risultati delle ricerche su riviste specializzate, dopo averli sottoposti alle critiche e al giudizio degli esperti del settore. Le aziende erano sostanzialmente impegnate a tradurre i risultati scientifici in applicazioni pratiche che rendessero più facile e comoda la vita di tutti.
Oggi le cose stanno rapidamente cambiando, e alla scienza chiara, ai cui risultati tutti possono accedere, si va sostituendo una scienza oscura, inaccessibile al pubblico, i cui risultati hanno importanti risvolti economici per chi la progetta, e quasi sempre rispondono ad obiettivi militari.

Per definizione, la ricerca bellica deve essere controllata, impenetrabile, chiusa, finalizzata alle esigenze del potere politico che la finanzia con rigorosi criteri di segretezza. Non si tratta solo di costruire e sperimentare armamenti. Quella che Pacchioni definisce “scienza oscura” – cioè non accessibile – riguarda anche le modalità di controllo del comportamento umano. Nel gennaio 2024 Neuralink, una delle società appartenenti al miliardario americano Musk, aveva sviluppato un dispositivo elettronico che utilizzando i debolissimi segnali elettrici prodotti dall’attività dei neuroni cerebrali poteva controllare dispositivi meccanici esterni. Raffinate tecnologie permettono oggi di inviare messaggi attraverso impulsi cerebrali o di estrarre da un cervello le informazioni neurali necessarie per trasmettere comandi e attivare azioni mirate. Lo sviluppo di queste ricerche richiede finanziamenti multimiliardari, in parte privati ma in parte anche pubblici, senza però che mai i risultati delle ricerche e le loro ricadute possano essere conosciuti o utilizzati da alcuno.
Il problema delle responsabilità diventa essenziale: chi sono i proprietari di questi risultati? Chi ne controlla l’uso? Chi può prevedere o evitare i pericoli conseguenti allo sviluppo di queste ricerche? Le quantità di denaro in gioco sono impressionanti e le cinque Big Five che le gestiscono (Apple, Google ora Alphabet, Amazon, Facebook ora Meta, Microsoft) rispondono a un gruppo di magnati ricchissimi e senza scrupoli e controllano attività commerciali che sfiorano i 1000 miliardi di dollari all’anno.
Proprio di scienza oscura si tratta, perché in nessun altro campo i procedimenti di ricerca sono così misteriosi e i risultati così pervasivi. Il segreto strettissimo a cui sono tenuti i ricercatori e talvolta anche le università è riccamente pagato, e inoltre queste aziende, che non sono neppure tenute a rendere pubblici i loro bilanci, riescono ad utilizzare una enorme quantità di dati creando dei veri e propri monopoli di conoscenza. Infatti, se la spesa privata in ricerca e sviluppo è velocemente aumentata negli ultimi anni, la spesa pubblica è vistosamente diminuita, con importanti risultati in campo biomedico ma scarsi risultati in campo tecnologico. Armamenti, esplorazioni spaziali, intelligenza artificiale sono sostanzialmente in mano a privati, e gli scopi militari sono sempre presenti in modo esplicito o implicito in queste avventure di conoscenza.
Certo, nelle università si sviluppa ancora una scienza chiara, disponibile per tutti, frutto del lavoro collaborativo e cooperativo di scienziati coinvolti in problematiche simili, i cui risultati possono e potranno avere applicazioni fruibili dalla comunità. Gran parte della ricerca biomedica è ancora aperta, e la diffusione dei vaccini anti-Covid ne è un esempio. Ma le ramificazioni dei poteri economici stanno cominciando a chiudere e a privatizzare sia la produzione che la diffusione di risultati ottenuti in centri universitari o comunque pubblici, finanziati dallo Stato. Non solo: per esempio gli stessi dati prodotti nel pubblico possono essere incamerati e messi sotto il controllo delle potenti aziende private. E la scienza chiara si scurisce gradualmente, spesso senza che neppure chi la ha prodotta se ne renda conto.
Pacchioni, forse, vorrebbe indurre i lettori ad avere ancora fiducia nella scienza e nel ruolo culturale delle Università ma i suoi stessi dati sembrano indicare ben altre direzioni. La ricerca accademica non ha più un ruolo rilevante, spinta a produrre dati finalizzati a utili immediati, senza prospettive culturali a lungo termine: i fondi sono pochi, le pubblicazioni modeste, l’impegno dei futuri ricercatori abbastanza scarso e, in mancanza di prospettive, è facile essere sedotti da stipendi travolgenti e possibilità tecnologiche avanzate a patto di mantenere rigorosamente privati i propri risultati. Anche l’opinione pubblica sulla scienza e sulle sue conquiste non è incoraggiante; contro questa sfiducia Pacchioni ricorda che la scienza non ha risposte su tutto, che comunque è necessaria una valutazione costi-benefici anche nelle semplici esperienze di vita quotidiana, e che per sua natura la scienza aperta è democratica: la ricerca sostiene lo sviluppo economico moderno, di cui tutti possono fruire, anche se i risultati possono svilupparsi nel tempo.
Una conclusione ottimistica non è facile e le previsioni tratteggiano un futuro piuttosto incerto (e pericoloso). Sulla base della sua competenza professionale ed umana, Pacchioni ricorda le tre C che possono sostenerci nella esperienza di vita: conoscenza, consapevolezza, controllo. Forse, credendoci e cercando di svilupparle anche a livello personale, potremo più saggiamente affrontare il rischio che le ricadute della conoscenza ci portino a vivere in un mondo meno equo, meno condiviso, meno aperto.
Credits immagine: Glenn Carstens-Peters su Unsplash