Scienza sotto embargo

Tempi duri per chi crede che scienza sia sinonimo di libera circolazione del sapere. Con un’ordinanza quasi kafkiana, un’agenzia governativa statunitense impedisce di fatto agli editori Usa di pubblicare ricerche provenienti da quelli che l’amministrazione Bush considera “Stati canaglia”, e il caso sta provocando un’ondata di proteste da parte della comunità scientifica. La vicenda è iniziata lo scorso ottobre, quando l’Office of Foreign Assets Control (Ofac), un ramo del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ha inviato una lettera all’Institute of Electrical and Electronics Engineers, che associa più di 300mila esperti di elettronica sparsi in tutto il mondo e pubblica centinaia di riviste tecniche. La lettera proibiva espressamente all’Ieee di effettuare lavoro redazionale sui paper di ricercatori residenti in Iran, Cuba, Libia e Sudan. Verso quei paesi vige infatti da anni un embargo commerciale, che mai si era pensato riguardasse anche l’attività scientifica. Secondo l’Ofac, invece, il lavoro redazionale compiuto su un articolo di ricerca (dalla revisione dei referee alla semplice correzione linguistica) è da considerarsi un “servizio”, e come tale può essere fornito a un paese sotto embargo solo con una autorizzazione speciale dello stesso Dipartimento del Tesoro. Contravvenire è un reato punibile con multe fino a 50.000 dollari, se non addirittura prigione fino a 10 anni. Non si tratta quindi di una censura esplicita, perché il provvedimento non vieta di pubblicare articoli scritti da ricercatori cubani o iraniani; la condizione posta è che essi non vengano in alcun modo ritoccati dalla redazione negli Stati Uniti. Ma chiunque conosca i meccanismi dell’editoria scientifica sa bene che questo è impossibile: un articolo di ricerca va avanti e indietro diverse volte tra autori, revisori e redattori della rivista, subendo molte modifiche prima di essere pubblicato. Praticamente nessun ricercatore, nemmeno se di madrelingua inglese e con in mano una scoperta da Nobel, è in grado di produrre un articolo già adatto alla pubblicazione su “Nature” o “Science”. Vietare l’editing vuol dire di fatto vietare la pubblicazione. Di più, impedisce anche solo di prendere in considerazione un articolo se proviene da un determinato paese. La lettera dell’Ofac ha suscitato l’indignazione e la perplessità dell’intera comunità scientifica statunitense, anche perché creava molte situazioni potenzialmente ambigue. “Un articolo con più autori, di cui uno residente in uno dei paesi in questione, è sottoposto a embargo? E un ricercatore statunitense che scrive un articolo con uno scienziato iraniano è perseguibile?” si chiedeva in un editoriale Beatrice Renault, direttrice di “Nature Medicine”. E sulla stessa rivista un altro articolo commentava con sarcasmo: “Un’agenzia governativa il cui compito è sequestrare le proprietà degli spacciatori di droga è diventata improvvisamente il guardiano dell’editoria scientifica”. Pochi giorni fa, in un incontro svoltosi a Washington il 9 febbraio, il delegato del Tesoro David Mills ha ribadito ai rappresentanti di 30 editori che chiunque prenda in considerazione un articolo proveniente da un paese come l’Iran deve richiedere l’autorizzazione del Dipartimento. Ed è andato oltre, avvertendo che sì, uno scienziato statunitense può essere perseguito per aver collaborato con un collega iraniano. Più di un editore, nei mesi scorsi, ha già smesso di accettare articoli dai paesi sotto embargo. È il caso della American Society for Microbiology , e della American Chemical Society, che hanno dichiarato di deplorare il provvedimento, ma di non poter esporre i propri collaboratori al rischio di azioni legali. “Questa decisione ci mette molto a disagio, ma i nostri collaboratori sono in gran parte volontari e dobbiamo tutelarli”, ha dichiarato Sam Kaplan, responsabile delle pubblicazioni dell’Asm. “Speriamo che le persone ragionevoli si renderanno conto del danno che questo provvedimento porta al mondo scientifico”.Lo Ieee, il primo editore coinvolto, ha scelto una strada intermedia: non accetta più sottomissioni di articoli dai propri membri in quei paesi, ma ha presentato richiesta per una autorizzazione “forfettaria”, che risolva il problema una volta per tutte e fissi un precedente anche per gli altri giornali. La maggior parte degli editori tuttavia, a cominciare dall’American Association for the Advancement of Science (che pubblica “Science”) e il Nature Publishing Group (editore europeo, ma con molte riviste che hanno sede negli Usa) hanno annunciato proprio in questi giorni che sfideranno il provvedimento. “La nostra è una attività coperta dal Primo Emendamento (la parte della costituzione americana che garantisce la libertà d’espressione, ndr) e il governo non ha autorità per restringerla”, ha dichiarato Allan Adler, capo dell’ufficio legale della Associaton of American Publishers.

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