Staminali con un bagno acido? Una bufala

Oggi è possibile produrre cellule staminali riprogrammando cellule adulte e già differenziate, ma le tecniche esistenti sono tutte estremamente costose, e ben poco efficienti. Questo almeno fino a gennaio, quando di colpo sembra arrivare il miracolo. Su Nature appare lo studio di un team di ricercatori del Riken Center for Developmental Biology di Kobe, che affermano di aver ottenuto cellule staminali pluripotenti con un metodo tanto semplice da sembrare quasi banale: immergendo delle cellule somatiche in un “bagno acido”. Troppo bello per essere vero? Sembra proprio di sì. Quasi da subito infatti iniziano a piovere critiche sulla ricerca giapponese, e a marzo sono alcuni degli stessi autori dello studio a chiedere che l’articolo sia ritirato da Nature. Oggi infine il probabile epilogo: uno studio della Chinese University di Hong Kong ha provato a replicare scrupolosamente il metodo utilizzato dai ricercatori giapponesi, dimostrando che si tratterebbe solamente dell’ennesima bufala scientifica.

La tecnica ideata dal team di ricercatori giapponesi si chiama stimulus-triggered acquisition of pluripotency (Stap), e si basa sulla (presunta) scoperta che alcuni tipi di stress, come la stimolazione meccanica, o un bagno di sostanze acide, permetterebbero di riprogrammare le cellule adulte in cellule staminali pluripotenti. Un metodo tutto sommato semplice, almeno rispetto alle tecniche usate fino ad oggi. Eppure dalla pubblicazione dell’articolo originale nessuno è stato in grado di ottenere i risultati dei ricercatori giapponesi.

Per questo motivo, il team guidato da Kennet Lee, della Chinese University di Hong Kong, ha deciso di prendere la questione di petto, replicando scrupolosamente l’esperimento apparso su Nature, e documentando online passo dopo passo l’intero processo. Nonostante i loro sforzi però, le cellule della milza di topo utilizzate nell’esperimento originale hanno rifiutato per l’ennesima volta di trasformarsi in cellule staminali. I risultati ora sono stati pubblicati sulla rivista F1000Research, insieme a tutti i dati raccolti nel corso dell’esperimento, per facilitarne la valutazione da parte dell’intera comunità scientifica.

Via: Wired.it

Credits immagine: Haruko Obokata

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