Storie di biohacker

Alessandro Delfanti

Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione

Elèuthera, Milano 2013 pp.120, euro 10,00

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“Hacker” è una parola circondata da un’aura sulfurea. La usiamo per i malandrini che profanano i santuari informatici in cui sono custoditi dati personali, informazioni militari o i nostri soldi, ormai ridotti a bit. Ma è un’interpretazione provinciale e tutta italiana. “Hacker”, infatti, è innanzitutto colui che non si accontenta di usare gli oggetti, ma vule metterci le mani dentro e mostrare a tutti cosa c’è dentro. Non si parla necessariamente di computer e software, anche se proprio la rete Internet ha permesso di estendere la mentalità hacker al di fuori dell’informatica. Nell’attuale ricerca biomedica, sostiene infatti Alessandro Delfanti, l’autore di Biohacker (appena pubblicato da Elèuthera), la cultura hacker sta prendendo il posto dei C.U.D.O.S. (Comunismo, Universalismo, Disinteresse, Originalità, Scetticismo), le norme che il fondatore della sociologia della scienza Robert K. Merton aveva posto alla base dell’agire scientifico negli anni Quaranta. Rispetto alle norme mertoniane non si tratta di un’inversione radicale. Anzi, il “comunismo”, cioè la rinuncia a qualsiasi pretesa di monopolio dell’informazione, è un patrimonio anche di questa genìa emergente di scienziati.

Per evidenziarlo, Delfanti prende in esame alcuni casi di studio molto diversi tra loro. Si parte con Ilaria Capua, la virologa che ha convinto la comunità scientifica che, per affrontare emergenze sanitarie come l’influenza aviaria, è necessario condividere nel modo più ampio possibile le sequenze genetiche del virus. Si passa per Craig Venter, lo scienziato-manager che accumula la più ampia banca dati genetica ad accesso aperto del mondo navigando per gli oceani sul suo yacht-laboratorio. Si finisce con DIYBio e Salvatore Iaconesi: la prima sigla indica una rete di ricercatori che promuovono la diffusione di biotecnologie alla portata di cittadini non esperti, il secondo è un cittadino non esperto di biologia (ma assai versato nell’informatica) e malato di tumore al cervello, che ha deciso di “craccare” la sua stessa cartella clinica per metterla in rete e raccogliere via Web centinaia di possibili terapie. La “scienza aperta” è il fattore comune di queste esperienze, dunque. Ma non pensate a una tribù di ricercatori che sognano un’utopia irrealizzabile nel capitalismo attuale.

I casi che descrive Delfanti non sono ideologicamente in contrasto con chi fa profitto con le idee (una netta violazione dei C.U.D.O.S.), né difendono acriticamente la ricerca pubblica in quanto “statale”. Craig Venter, infatti, è un imprenditore assai spregiudicato amatissimo dai venture capitalist e odiato dall’accademia e dalle multinazionali vecchio stampo. Ilaria Capua, all’opposto, per istituire il suo archivio pubblico ha dovuto sconfiggere le linee-guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’organismo pubblico per eccellenza nella ricerca biomedica internazionale. In Italia, dove sia lo Stato che le imprese si tengono alla larga dalla ricerca, i biohacker potrebbero trovarsi bene.

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