Storie di inferno metropolitano

Mike DavisCittà Morte. Storie di inferno metropolitanoFeltrinelli, 2004pp.302, euro 30,00Negli ultimi due decenni, Mike Davis ha intrapreso un lungo studio delle città americane. Tuttavia, nel corso delle ricerche la prospettiva si è inevitabilmente allargata: sarebbe stato impossibile capire i centri urbani statunitensi, così poco “cittadini”, senza analizzarne il rapporto con i territori, geografici e culturali, che li circondano. Ecco perché, i 12 saggi – pubblicati negli anni Novanta e ora raccolti in questo volume – seguono piuttosto i flussi di persone e cose che entrano ed escono dalle città.A Las Vegas, per esempio, il deserto viene respinto dagli alberghi-casinò del centro (che ospitano tigri siberiane piuttosto che cactus), ma poi diventa terreno di conquista per milioni di abitanti a quattro ruote, assetati d’acqua e petrolio, che ne fanno la quinta città più inquinata degli Stati Uniti. Anche la Los Angeles molto amata dall’autore è caratterizzata da flussi. Davis descrive i palazzi del potere economico che entrano ed escono dal “centro storico” (downtown), in cui le fortezze securitarie si alternano ai senzatetto secondo i capricci della speculazione edilizia e finanziaria. Persino le etnie popolano e abbandonano i sobborghi secondo gerarchie socioeconomiche variabili, apparentemente incomprensibili lontano dalla “città degli angeli”. La violenza degli scontri interrazziali smentisce l’utopia del melting pot, ma anche la vulgata semplicistica del razzismo bianco. E allora occorre guardare lontano per capire l’esplosione odierna, e recuperare il complicato filo della “lotta di classe a Los Angeles”, secondo l’ostinato trotzkismo di Davis. Le rivolte nere di Watts (contro i bianchi, nel 1965) e Southcentral (1992, contro i coreani) furono precedute dai giovani proletari bianchi dei primi anni Sessanta e dalle gang ispaniche che attaccano (ricambiate) le comunità nere. Passeggiando per Compton, in cui “la percentuale di adesione alle gang è superiore al 100%” (sic!), o frequentando i funerali “latinos” di Hobarth Boulevard, Davis ci mostra senza cortesie il “Vietnam interno” degli Stati Uniti: la guerra persa contro violenza ed esclusione, nonostante i fondi federali sottratti all’assistenza sociale vengano spesi per la militarizzazione dei quartieri. La città, dunque, non è un luogo fisico, ma un rapporto in continuo divenire tra habitat e abitanti. E’ un complesso modello di sviluppo, governato poco e male da chi non ne subisce le conseguenze. Conseguenze terribili quanto le decine di nubi tossiche liberate su Utah e Nevada (un “segmento scarsamente utile di popolazione” nei rapporti della Commissione per l’Energia Atomica scovati da Davis) per sperimentare armi nucleari, chimiche e biologiche a pochi chilometri da inconsapevoli centri abitati. Non si tratta di “errori”, ammonisce l’autore: i militari hanno sempre mirato sui civili. Tanto è vero che durante la Seconda guerra mondiale riprodussero addirittura un quartiere operaio tedesco (che Davis visita con i suoi studenti) per testare l’effetto del napalm sui civili di Dresda, Berlino ed Amburgo. Città morte, appunto.

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