Salute

Cureremo la talassemia con la terapia genica?

Fino a qualche tempo fa la Talassemia Major – la forma più grave di talassemia – era una malattia incompatibile non solo con una qualità di vita accettabile, ma spesso con la vita stessa. Poi, da circa trent’anni, è stata trasformata da patologia rapidamente fatale a patologia potenzialmente curabile. Il tutto grazie alle terapie trasfusionali e alla contemporanea rimozione del ferro, che proprio a causa delle continue immissioni di sangue si accumula nell’organismo provocando gravi danni a organi come fegato, pancreas e cuore. Ma il peso della malattia resta importante. Per questo la ricerca si sta orientando a trovare soluzioni definitive facendo ricorso alla terapia genica: inserendo lentivirus modificati con la sequenza genica corretta nelle cellule staminali del sangue prelevate dal midollo osseo del paziente e poi reinfuse, la Talassemia Major potrebbe essere definitivamente sconfitta.

Cosa è la talassemia

“La talassemia – spiega Gian Luca Forni, presidente della Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie (SITE) – è una anomalia nella produzione dell’emoglobina, proteina che trasporta l’ossigeno in tutto l’organismo. E’ una malattia trasmessa geneticamente, e in Italia circa il 5 per cento della popolazione è portatore sano, cioè presenta anomalie nella produzione di emoglobina ma senza manifestare i sintomi della malattia. L’unione di due portatori sani di beta talassemia può però portare alla nascita di un bambino o di una bambina con una forma grave di talassemia, detta Talassemia Major, o morbo di Cooley, quindi non in grado di produrre emoglobina e costretto per tutta la vita a ricorrere a trasfusioni di globuli rossi”.

Ad oggi si stima che in Italia siano circa seimila i pazienti colpiti da questa forma di talassemia trasfusione-dipendente (TDT). L’incidenza si è ridotta moltissimo grazie allo screening delle donne portatrici in gravidanza.

Il trattamento di terapia genica

La strada verso una cura definitiva della talassemia trasfusione-dipendente è lunga, ma già si scorgono i primi segnali di una rivoluzione, generata proprio dai progressi nel campo della terapia genica. Il trattamento prevede in primo luogo il prelievo delle cellule staminali del paziente: queste devono essere “mobilizzate” nel midollo osseo per essere raccolte nel sangue periferico. Successivamente le cellule vengono selezionate in laboratorio così da isolare le CD34+, nelle quali viene inserito il vettore lentivirale che contiene la copia sana del gene che codifica per la catena beta dell’emoglobina.

Nel frattempo il paziente viene sottoposto a una chemioterapia per preparare il midollo osseo all’arrivo delle nuove cellule, che vengono reimmesse nell’organismo tramite una semplice trasfusione. Una volta in circolo le cellule raggiungono il midollo, dove si annidano negli spazi midollari, attecchiscono e cominciano a riprodursi.

Le sperimentazioni

I ricercatori dell’Ospedale San Raffaele e dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano stanno da tempo lavorando a una soluzione che prevede di reiniettare le cellule staminali modificate direttamente nel midollo osseo. A Roma, invece, sono attive due sperimentazioni all’ospedale Pediatrico Bambino Gesù su pazienti con beta talassemia trasfusione dipendente (TDT), secondo il protocollo LentiGlobin sviluppato da bluebirdbio, azienda biotech statunitense che proprio in questi giorni ha ricevuto dall’Ema l’accesso alla procedura accelerata di esame.

Un’alternativa al trapianto

A beneficiare di questo innovativo trattamento potrebbero essere soprattutto i pazienti che non sono idonei al trapianto di midollo, la strada che sino ad oggi ha consentito di liberare i pazienti dalle continue trasfusioni – in media una ogni tre settimane. “Ma l’accesso ai trapianti è limitato dalla disponibilità di un donatore”, ricorda Franco Locatelli, professore di Pediatria all’Università di Pavia e direttore del Dipartimento di Oncoematologia pediatrica e Terapia cellulare e genica dell’Ospedale Bambino Gesù della capitale.

Un donatore compatibile si trova in famiglia per meno del 25 per cento dei pazienti, mentre un donatore compatibile al di fuori della famiglia si può trovare al massimo per un altro 30 per cento di pazienti. Non solo: il trapianto allogenico, cioè da donatore che non sia gemello omozigote del paziente, ha maggiori probabilità di successo nei pazienti pediatrici (90%) e minori nei pazienti adulti, superati comunque i 14 anni.

“Visto l’allungamento della vita media dei pazienti beta talassemici – continua Locatelli – c’è un’ampia fetta di pazienti giovani-adulti che non può più accedere alle opportunità del trapianto. Per tutti costoro potrebbe dunque presto concretizzarsi una valida alternativa rappresentata dalla terapia genica. Una terapia che, quando ha successo, è definitiva: “L’espressione genica è mantenuta nel tempo – conclude Locatelli – e il paziente non ha più bisogno di fare trasfusioni”.

Elisa Manacorda

Giornalista, è direttrice di Galileo, che ha fondato nel 1996 con altri giornalisti e ricercatori. Scrive di scienza e tecnologia per le principali testate italiane. E’ docente al Master SGP della Sapienza Università di Roma, collabora con il Master in Comunicazione della Scienza dell'Università di Ferrara. Con Letizia Gabaglio è autrice di "Il Fattore X" sulla medicina di genere.

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