Categorie: Salute

Test genetici prenatali, basta il sangue materno

Predire l’intero genoma del feto – e la presenza di eventuali malattie genetiche – da un prelievo di sangue materno e da un campione di saliva del papà. Evitando anche quell’1 per cento di rischio di interruzione di gravidanza che comportano test invasivi come l’analisi dei villi coriali e l’amniocentesi. É quanto fatto da un gruppo di ricercatori della University of Washington guidati da Jacob Kitzman e Matthew Snyder – in collaborazione anche con l’ Università di Bari – analizzando il dna fetale che nuota nel sangue materno. 

Infatti, come spiegano gli scienziati nello studio pubblicato su Science Translational Medicine, frammenti di dna nel nascituro sono presenti, mescolati a quelli di origine materna, nel circolo sanguigno della mamma fin da poco dopo il concepimento. In genere, di tutto il dna che si ritrova nel sangue di una donna incinta, circa un 10 per cento è di origine fetale. La scoperta risale al 1997 (si deve agli studi di Dennis Lo della Chinese University of Hong Kong) e da allora gli sforzi degli scienziati sono stati quelli di sfruttare questo dna fetale per mettere a punto test genetici prenatali senza bisogno di ricorrere agli aghi (e quindi evitando i correlati rischi). 

Il problema però è che, vista la relativa poca abbondanza del dna del nascituro contro quello materno, identificare il materiale genetico del feto non è facile. Un primo tentativo per superare l’ostacolo venne messo a punto dal team di Lo, nel 2010, quando a partire dal genoma materno e paterno i ricercatori  riuscirono a dimostrare che è possibile ricostruire la mappa genomica fetale, e utilizzarla per predire la presenza di mutazioni nel nascituro (Nel sangue materno il segreto del genoma fetale). 

Come? Basandosi sulla tecnica degli aplotipi: varianti genetiche raggruppate sullo stesso cromosoma. Nella mamma, infatti, gli aplotipi di ogni coppia cromosomica sono presenti in quantità identica. Ma il feto avrà ricevuto solo uno dei due aplotipi per ogni coppia, che risulterà quindi quello più abbondante nel circolo materno. Al contrario, in riferimento all’eredità paterna, solo uno dei due aplotipi sarà presente. In questo modo gli scienziati guidati da Lo ottennero una copertura del genoma fetale pari circa al 94 per cento, dimostrando la possibilità di effettuare un sequenziamento completo. 

“Ma c’è una grande differenza tra mostrare che qualcosa può essere fatto e farlo”, ha spiegato Jay Shendure della University of Washington, tra gli autori del nuovo studio, a Science news.  Questa volta, infatti, i ricercatori hanno prelevato dei campioni di sangue da una donna a 18 settimane e mezzo di gestazione, e hanno quindi sequenziato il suo dna. Per distinguere quello materno da quello fetale, gli scienziati si sono basati sul metodo degli aplotipi, servendosi di analisi statistiche e computazionali. 

Confrontando il dna prelevato dal sangue con quello materno e, quindi, con quello paterno, i ricercatori sono riusciti a dedurre l’intero genoma appartenente al nascituro. Con una precisione del 98 per cento, come mostrato dall’analisi del genoma compiuta sul bambino una volta nato (scesa a 95 per cento nei test ripetuti più precocemente, e con meno dna fetale quindi, intorno a 8,2 settimane di gestazione). 

Ma i ricercatori non si sono limitati a questo: hanno anche cercato di predire quelle caratteristiche genetiche non presenti nel genoma dei genitori, ovvero mutazioni tipiche del dna del nascituro perché insorte al momento della formazione di spermatozoi o ovociti, e che potrebbero essere correlate a malattie. Delle 44 mutazioni ex novo trovate realmente nell’analisi del genoma del primo feto preso in considerazione, 39 erano state previste (nessuna era associata a malattia). Ma malgrado le potenzialità predittive, il sistema ha ancora bisogno di essere notevolmente affinato, visto che sono state previste moltissime altre mutazioni non presenti (circa 25 milioni). 

Comunque è un traguardo importante, come ha precisato Shendure: “Questo studio apre le porte alla possibilità di analizzare l’intero genoma del feto per più di 3000 disordini genetici di un singolo gene con un unico test non invasivo”.  Anche se prima sarà necessario rendere la tecnica più economica e, magari, concentrare gli sforzi solo su alcune porzioni del genoma coinvolte nelle malattie genetiche, suggerisce Lo. 

via wired.it

Credit immagine a moon_child / Flickr

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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  • Confesso di essermi persa, durante la lettura dell'articolo, tra definizioni e procedimenti... ma comunque resto incantata dal progredire della scienza e spero che ben presto si arrivi a una procedura meno costosa per aiutare la madre e il nascituro nel lungo e miracoloso processo di gestazione.

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