In Europa la situazione migliora, ma non con la velocità sperata. In Italia è stabile, ma il numero dei contagi è ancora troppo alto: quasi quattromila nuove infezioni da hiv nel 2017, tra diagnosi e proiezioni sul sommerso, sono la spia di un’epidemia che non accenna ancora a placarsi. Nonostante i progressi terapeutici, insomma, siamo lontani dall’obbiettivo lanciato dall’Oms: sconfiggere l’hiv entro il 2030. A raccontarlo sono gli ultimi dati diffusi dall’Oms e dall’Istituto superiore di sanità in occasione della giornata mondiale contro l’Aids, prevista come ogni anno per il primo dicembre. Numeri che tratteggiano chiaramente problemi e criticità ancora da risolvere Uno su tutti: in Italia il test per l’hiv si fa ancora troppo poco, e soprattutto troppo tardi.
L’hiv in numeri
Gli ultimi dati disponibili sulle diagnosi nel nostro paese sono relativi al 2017, e parlano di 3.443 nuovi casi accertati di hiv. Circa 200 in meno rispetto all’anno scorso, anche se tenendo conto dei ritardi di notifica la cifra reale è destinata probabilmente ad allinearsi a quelle degli ultimi tre anni. L’incidenza dei contagi accertati si attesta quindi a 5,7 nuovi casi ogni 100mila abitanti. Come sempre negli ultimi anni le diagnosi tra gli uomini sono superiori di tre volte rispetto a quelle tra le donne. E se in termini assoluti il picco di contagi si registra tra i 30 e i 39 anni di età, il rischio massimo (in termini di incidenza) si osserva invece nella fascia dei 25-30enni.
Tante diagnosi tardive
Il dato che più fa riflettere è però quello relativo alle diagnosi tardive. Nel 2017 infatti più del 30% dei nuovi casi è emerso in persone che si sono sottoposte al test dell’Hiv ad anni di distanza dal contagio iniziale, spesso dopo aver sperimentato i primi sintomi della malattia. “L’Hiv è un virus che può impiegare 10 anni prima di produrre sintomi, ma diventa infettivo già dopo pochi mesi dal contagio”, racconta a Wired Andrea Gori, direttore dell’Unità operativa malattie infettive, fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, università degli studi di Milano. “E questo vuol dire che quel 30-40% dei pazienti che oggi arriva tardivamente alla diagnosi ha avuto moltissime occasioni di infettare altre persone”.
Più test per tutti
Una diagnosi tempestiva è dunque fondamentale, e per diverse ragioni. La prima è che iniziare le terapie precocemente minimizza i danni per i pazienti. E con tante diagnosi tardive non è un caso se l’Italia è invece, purtroppo, tra i paesi europei con la maggiore incidenza di casi di Aids conclamato (690 nel 2017). Ancor più importante, forse, è il fatto che quando le terapie antiretroviarli abbassano la carica dell’hiv sotto la soglia rilevabile (e oggi avviene in oltre il 90% dei casi) i pazienti smettono di essere infettivi. “Con il 100% di diagnosi tempestive l’hiv sarebbe virtualmente sconfitto, perché non rimarrebbe nessuno in grado di trasmettere la malattia”, sottolinea Gori. “È per questo che bisogna cambiare messaggio: smetterla di parlare solamente alle fasce a rischio, e spiegare che il test dell’hiv dovrebbe essere fatto da tutte le persone sessualmente attive”. Le opzioni d’altronde sono ormai moltissime: i test ospedalieri vengono offerti a tutti in forma anonima e gratuita, e i self-test disponibili in farmacia hanno un’ottima efficacia. Le armi ci sono, insomma, e si tratta solamente di utilizzarle.
Non a caso, Anlaids quest’anno ha deciso di lanciare una campagna di comunicazione che punta proprio a sensibilizzare sull’importanza di ricorrere al test a prescindere da chiamo, o dalle nostre abitudini. Lo slogan scelto è decisamente diretto: #TI RIGUARDA. E nasce da una semplice constatazione: le cosiddette categorie a rischio oggi sono più informate della popolazione generale, e in questa fascia di pazienti le diagnosi tardive risultano, in proporzione, minori di quelle con infezione meno avanzata. Mentre per gli eterosessuali che contraggono il virus per via sessuale (più del 50% di tutte le nuove diagnosi) è vero il contrario: le diagnosi tardive oggi sono la maggioranza. E per questo motivo, è tempo di ricordare a tutti, senza distinzioni, l’importanza della prevenzione, e del monitoraggio del proprio stato di salute.
Ma il test non è per tutti
Per i maggiorenni il ricorso al test è un diritto di cui bisogna imparare ad approfittare. Prima dei 18 anni però la situazione è diversa: la legge italiana prevede infatti la necessità di un consenso scritto dei genitori per effettuare un test dell’Hiv o per acquistarlo uno in farmacia. Una decisione che nasce per proteggere i più giovani, ma che si trasforma facilmente in un boomerang quando un ragazzo, o una ragazza, non trova il coraggio di affrontare i propri genitori e ammettere un comportamento a rischio. E a guardare i dati suoi contagi, si tratta di un atteggiamento legislativo che meriterebbe di essere ripensato: nella fascia tra i 15 e i 24 anni, per quanto contenute, le nuove diagnosi sono infatti leggermente in crescita negli ultimi anni. E l’incidenza maggiore si registra tra i 25 e i 29 anni, una fascia d’età in cui rientrano anche pazienti che hanno contratto la patologia prima della maggiore età, e hanno scoperto di averla solamente quando si sono presentati i sintomi (magari proprio per paura di affrontare il giudizio dei genitori).
Attualmente, la soluzione più facile per un minorenne che vuole sottoporsi al test senza avvertire mamma e papà è probabilmente quella di ricorrere all’auto-test: la vendita sarebbe riservata a chi ha compiuto il 18esimo anno di età, ma in molte farmacie (e persino in alcuni distributori di profilattici) non è difficile procurarselo. Ovviamente, sarebbe tutto più semplice se la normativa italiana, come avviene in molte nazioni europee, garantisse la possibilità di ricevere il test in assenza del genitore (l’età varia dai 14 anni di Regno Unito e Germania, ai 16 di Danimarca, Spagna e Portogallo). Nell’ultimo piano nazionale di interventi contro hiv e Aids se ne fa menzione, inserendo tra gli interventi proposti la possibilità di prevedere interventi normativi adeguati all’apertura dei test senza consenso dei genitori. Per ora, però, su questo punto il piano sembra rimasto lettera morta.
via Wired.it
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