Si torna a parlare di un test del sangue per l’Alzheimer, funziona?

Ridurre i costi, ridurre il grado di invasività. La ricerca per un test del sangue per la diagnosi dell’Alzheimer è uno dei campi più caldi nella lotta alle demenze, che vede da tempo impegnati diversi ricercatori. L’idea di base è quella di identificare dei marcatori di malattia che possano essere facilmente rivelati nel sangue. Sì, ma quali marcatori utilizzare?

Uno dei candidati più interessanti è la beta amiloide, una sostanza che può accumularsi formando delle placche nel cervello, considerate ad oggi tra i tratti più distintivi della patologia di Alzheimer, ma anche tra i più precoci della malattia. Alcuni studi mostrano come l’accumulo della beta amiloide possa avvenire diversi anni prima dell’insorgenza della demenza. Cercare tracce di questa sostanza nel sangue precocemente potrebbe quindi velocizzare la diagnosi, identificare i soggetti a rischio, ottimizzare il monitoraggio della malattia, e non da ultimo aiutare la selezione dei partecipanti agli studi clinici. In questa direzione va il lavoro pubblicato nei giorni scorsi su Nature dal team di Katsuhiko Yanagisawa del National Center for Geriatrics and Gerontology (Giappone), che promette buoni livelli di accuratezza.

Il metodo descritto dai ricercatori si basa sull’identificazione nel sangue di alcuni frammenti del peptide beta-amiloide, tramite un test a due passaggi: immunoprecipitazione seguita da spettrometria di massa, una tecnica che permette di pesare e in questo modo di identificare diverse sostanze. Il test è stato quindi testato e validato in due diversi set, su campioni provenienti da un totale di 373 persone (in Giappone e Australia), alcuni senza disturbi cognitivi, altri con compromissione cognitiva lieve (mild cognitive impairment, una condizione associata al rischio di Alzheimer) e altri ancora con diagnosi malattia.

Secondo quanto raccontano i ricercatori il loro test è estremamente accurato (si parla del 90% circa) nella capacità di predire i livelli di beta amiloide. I livelli dei biomarcatori erano infatti correlabili con i livelli di beta amiloide nel fluido cerebrospinale e nel cervello (misurata tramite PET). Ma, come anche gli stessi autori fanno notare, non si tratta, ancora, che di un piccolo passo, di un test potenzialmente utile ma che necessita di ulteriori valutazioni.

Anche perché se tante sono le potenzialità altrettante sono le perplessità, come emerge dai pareri di diversi esperti del campo, raccolti dallo UK Science Media Centre. Il test, precisano gli esperti, potrebbe permettere più precisamente di identificare la presenza di beta amiloide, un marcatore dell’Alzheimer, non di stabilire correlazioni direttamente con la malattia. Le tecnologie usate dai ricercatori inoltre non sono così diffuse nei laboratori standard, ma soprattutto, ancor prima perplessità esistono sulla replicabilità dei risultati nel tempo e in diverse popolazioni. E non sembrerebbe chiarissime nellemo la fonte delle amiloidi testate nei campioni. Ciò detto se le ricerche future confermeranno la bontà dell’approccio più che immaginare un test per l’Alzheimer, potremmo più realisticamente pensare di avere un nuovo strumento per la selezione di partecipanti a trial clinici. L’idea infatti è che eventuali terapie possano essere più efficaci quanto prima somministrate e un test che aiuti a capire chi si trova nelle fasi iniziali della malattia sotto questo punto di vista sarebbe benvenuto.

Riferimenti: Nature

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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