Trial clinico fai da te

Un bel problema. Che si fa quando si ha tra le mani un farmaco che promette molto contro i tumori, che i ricercatori vorrebbero sperimentare secondo le regole, ma che i pazienti possono già procurarsi facilmente? Chi spiega ai malati terminali che devono aspettare due anni per l’approvazione della Food and Drug Administration? La storia riguarda il dicloroacetato, un composto già noto da anni, e da tempo sperimentato (anche se mai approvato) contro alcune rare malattie neurologiche. Ha la capacità di riattivare i mitocondri, i piccoli organelli che hanno il compito di ossidare gli zuccheri e fare così da centrale energetica della cellula, quando questi siano difettosi.

All’inizio di quest’anno, Evangelos Michelakis dell’Università dell’Alberta a Edmonton (Usa) ha pubblicato sulla rivista Cancer Cell i risultati di uno studio sui ratti in cui questo composto è stato per la prima volta testato contro le cellule tumorali. Nella maggior parte dei tumori, i mitocondri sono infatti “spenti”, e le cellule usano un altro sistema, meno efficiente, per procurarsi energia: si tratta della glicolisi, in cui le molecole di zucchero vengono scisse in modo in condizioni anaerobiche, cioè in assenza di ossigeno. È il cosiddetto effetto Warburg, noto fino dal 1930 e che rappresenta una differenza fondamentale tra le cellule sane e quelle tumorali.

Secondo i ricercatori canadesi, questo non avviene solo, come si è sempre pensato, perché le cellule tumorali hanno a disposizione meno ossigeno, ma perché i mitocondri hanno anche un’altra funzione: regolano l’apoptosi, cioè la morte programmata di cellule difettose. Per questo al tumore conviene tagliarli fuori. Ecco allora l’idea di provare a riattivarli. E in effetti, nei topi malati di tumore al polmone, nel giro di una settimana la crescita del tumore si era arrestata, e dopo tre mesi i tumori erano grandi la metà rispetto agli animali non trattati. Il tutto con pochissimi effetti collaterali.

A questo punto una casa farmaceutica avrebbe dovuto prendere al volo l’occasione e portare la molecola in sperimentazione. Ma il dicloroacetato è noto da anni, e non è brevettabile. Manca quindi l’incentivo economico, e di multinazionali del farmaco ad aiutare i ricercatori canadesi non se ne sono viste. Michelakis e colleghi hanno quindi iniziato a raccogliere fondi da fondazioni e investitori privati, per iniziare un trial clinico nei prossimi mesi.

Qui entra in scena Jim Tassano, un californiano incappato nelle notizie sul dicloroacetato mentre cercava disperatamente di aiutare un amico malato di cancro. Tassano ha ordinato tutte le scorte di questo composto che ha trovato sul mercato, poi si è messo addirittura a produrlo in proprio, e a venderlo tramite il suo sito web, presentandolo come un prodotto veterinario (che non richiede approvazione dell’Fda). Al momento lo hanno già acquistato circa 200 pazienti, che ora stanno documentando i loro progressi sul sito dello stesso Tassano.

Il più preoccupato è lo stesso Michelakis. Questa sperimentazione autogestita rischia di ostacolare l’approvazione del farmaco: prima di tutto se alcuni di questi pazienti avessero pesanti effetti collaterali (il farmaco finora sembra molto sicuro, ma questo vale per la versione industriale, non per quella casalinga di Tassano) il dicloroacetato si farebbe una pessima reputazione che ostacolerebbe gli sviluppo successivi. Inoltre, per convincere i pazienti a partecipare a una sperimentazione controllata, si dà loro in cambio la possibilità di avere un farmaco che altrimenti non avrebbero. Se il farmaco si trova su Internet, sarà difficile reclutare soggetti per un trial.

“Personalmente non mi pare che i risultati sugli animali siano così entusiasmanti da suscitare questo clamore”, commenta Maurizio D’Incalci, direttore del dipartimento di oncologia medica dell’Istituto Mario Negri di Milano: “Non è la prima volta che si tenta di attaccare il tumore agendo sui mitocondri, ma finora non si è mai arrivati a nulla. Va ricordato poi che esiste comunque il brevetto d’uso, una protezione più debole del brevetto vero e proprio ma che permette comunque in un caso come questo, se la molecola è davvero interessante, di avere un incentivo economico”. In ogni caso, i rischi dell’iniziativa di Tassano sono tanti. “Anche se ora i pazienti cercano di raccogliere i dati in modo più sistematico, se questa sperimentazione autogestita continua è molto difficile che si arrivi mai all’approvazione della Fda”.

C’è però una lezione da trarre, secondo l’esperto italiano. “I pazienti, le loro famiglie e le loro associazioni andrebbero coinvolte di più nel processo che porta alla sperimentazione e approvazione dei farmaci. Hanno molte competenze preziose, e soprattutto possono contribuire a velocizzare le procedure. Ormai lo sforzo di tutelare i pazienti nei trial attraverso le regolamentazioni ha portato all’eccesso opposto. L’ossessione per linee guida, good clinical practice e così via ha reso le sperimentazioni cliniche così onerose sul piano organizzativo e finanziario che possono farle solo le grandi multinazionali, e comunque con grande lentezza. Così si finisce per rallentare l’innovazione, e storie come questa sono il segnale che bisogna cercare dei modi per accelerarla”.

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