Sul fondale dell’oceano atlantico, al largo delle coste africane della Namibia, è stato individuato il più grande batterio mai conosciuto. E per questo visibile a occhio nudo. Si chiama Thiomargarita namibiensis – che significa “perla sulfurea della Namibia” – ed è quasi cento volte più grande del più grande batterio scoperto in precedenza. E insieme al Thioploca, già noto agli scienziati, costituisce un genere di batteri dello zolfo di estremo interesse. Sono infatti gli unici organismi a giocare un ruolo molto importante in due cicli fondamentali per l’ecosistema, quello dell’azoto e quello dello zolfo, costituendo una sorta di “anello di congiunzione” tra loro. Il gruppo di biologi del Max Planck Institute di Brema, che ha annunciato la scoperta con un articolo su Science, si chiede ora come sia stato possibile ignorarne l’esistenza per così tanto tempo.
L’equipe internazionale, composta da scienziati tedeschi, spagnoli e americani, si trovava a largo della costa di Walvis Bay per condurre ricerche su altri due batteri dello zolfo: il Beggiatoa e il Thioploca. I ricercatori erano convinti di trovarne una grande quantità dal momento che le caratteristiche idrografiche di quel tratto di oceano sono identiche alla zona del Pacifico dove avevano già individuato le due specie. Forti correnti corrono parallelamente alla costa da nord a sud e, a causa del movimento verso levante della rotazione terrestre, creano delle turbolenze nelle profondità marine tali da rendere queste acque straordinariamente ricche di phytoplankton. Tuttavia, contrariamente alle aspettative, i sedimenti esaminati presentavano tracce di Thioploca molto scarse mentre abbondavano di un batterio sconosciuto.
“Quando ne ho parlato con i miei colleghi, all’inizio non volevano crederci”, racconta Heide Schulz, che per prima ha riconosciuto il nuovo batterio, “ma è già un po’ di tempo che studio i batteri esotici e mi sono accorta immediatamente che si trattava di un nuovo batterio dello zolfo”. Il Thiomargarita è un organismo monocellulare di forma sferica, con un diametro variabile da 0,1 a 0,3 millimetri che in alcuni esemplari può raggiungere anche i 0,75 millimetri. Con il microscopio è stato possibile accertare che il 98 per cento del volume della cellula è occupato da una vacuola, una specie di camera d’aria, che serve al batterio come contenitore di risorse. Infatti questa sacca viene usata per immagazzinare il nitrato necessario al Thiomargarita per “digerire” l’acido solfridico, che è la base del suo nutrimento. Le concentrazioni di nitrato all’interno della vacuola possono essere 10 mila volte superiori a quelle dell’acqua marina.
Il Thiomargarita cresce in piccoli filamenti di cellule separate su di una melma lanuginosa nelle profondità oceaniche e si fa trasportare dalle correnti. Esattamente come il Thioploca, vive nutrendosi dell’acido solfidrico che trova nel fondale oceanico ricco di phytoplankton. Ma, a differenza dell’altro batterio, non possiede autonomia di movimento. Deve aspettare che le condizioni ambientali, per esempio un temporale, creino delle turbolenze che gli consentano di raggiungere l’acqua superficiale dove trova l’azoto che invece scarseggia in profondità. Le cellule di Thioploca, invece, formano filamenti verticali dotati di una sorta di tunnel interno grazie al quale possono liberamente migrare dal basso verso l’alto e combinare la loro sorgente di cibo con il nitrato che serve a metabolizzarlo. Senza questa possibilità di vagabondaggio attivo il Thiomargarita rischia di trascorrere lunghi periodi di “astinenza” da azoto, ma grazie al suo enorme polmone anaerobico può resistere fino a tre mesi. Inoltre è in grado di sopportare condizioni ambientali, come le alte concentrazioni di ossigeno o di acido solfidrico, che sarebbero letali per il Thioploca. Per questo secondo i ricercatori del Max Planck Insitute, il Thiomargarita rappresenta uno straordinario esempio di fenomeno adattativo nel mondo vivente.