Un detective non deduce mai

    Ci sono alcune lezioni che abbiamo imparato molto bene da Sherlock Holmes, il principe dei detectives. Ad esempio, i suoi insegnamenti su come bisogna condurre l’analisi degli indizi fanno ormai parte del bagaglio culturale condiviso. Perfino un pivello sa che il segreto sta nell’osservare il più possibile, e soprattutto nel non lasciarsi sviare da ciò che sembra ovvio. “Non c’è nulla di piu ingannevole di un fatto ovvio”, osserva Holmes, e questo proposito dice anche: “Mi sono allenato a notare ciò che vedo”.

    E’ chiaro che il suo è un invito a una percezione attiva, che sappia rintracciare dietro l’apparenza di un fatto normale qualcosa di molto significativo alla luce delle circostanze presenti. In Il barbaglio d’argento (Silver Blaze) Holmes sta cercando un cavallo rubato, e l’ispettore lo chiama in causa domandandogli:

    – C’è qualche altro punto su cui lei ritiene opportuno attrarre la mia attenzione?
    – Sì, sullo strano incidente del cane, quella notte.
    – Ma, quella notte, il cane non ha fatto nulla.
    – Questo appunto è l’incidente curioso.

    Queste cose, bene o male, le sappiamo. Ma quando si passa a considerare il nocciolo del metodo investigativo, cioè il ragionamento, scopriamo che la maggior parte delle persone ha idee del tutto inadeguate su quali siano le inferenze coinvolte, e su come Holmes, Dupin e Poirot arrivino a scoprire la verità.

    Il pregiudizio piu diffuso è quello secondo cui i detectives scoprono chi sia l’assassino deducendolo con le ferree leggi della logica. Questa illusione fa sì che Sherlock Holmes sia ammirato come un campione dell’arte della deduzione. L’equivoco è nutrito dal fatto che lo stesso Conan Doyle chiama “deduzioni” i processi di pensiero che hanno reso famoso Holmes. In realtà Holmes non deduce quasi mai, se per deduzione si intende “inferenza valida”. In generale, un’inferenza è valida se garantisce la conservazione della verità, ma Holmes non percorre quasi mai i sentieri sicuri della dimostrazione logica: al contrario, quasi sempre si butta a indovinare.

    L’informazione semantica

    Il fatto è che avendo a disposizione un insieme di premesse da cui si vogliano trarre delle conclusioni, ci si trova di fronte a un bivio decisivo. O si salvaguarda la certezza, o si salvaguarda l’aumento dell’informazione semantica. Le due opzioni sono mutuamente esclusive.

    Se si desidera approdare a conclusioni che siano più ricche di informazione dell’insieme delle premesse, e che dunque costituiscano un vero passo in avanti rispetto alla situazione precedente, bisogna accettare di sacrificare la sicurezza del percorso inferenziale che si è fatto.
    Se al contrario si tiene ferma l’esigenza di transitare da proposizioni vere a proposizioni vere, senza mai correre il rischio di passare dal vero al falso (il terrore di ogni logico), si paga l’assenza di tale rischio con l’impossibilità di giungere ad una conclusione che accresca davvero l’informazione.

    La nozione di informazione semantica veicolata da una proposizione è definita come la quantità di stati del mondo che la proposizione esclude. La proposizione:

    l’assassino è inglese o ha barba posticcia

    esclude un solo stato possibile, quello in cui l’assassino non sia inglese e non abbia barba posticcia. Una proposizione piu ricca di informazione semantica è:

    l’assassino è inglese

    che esclude il precedente stato, e inoltre esclude lo stato in cui l’assassino non sia inglese e abbia barba posticcia. Ancora piu ricca di informazione è la proposizione:

    l’assassino è inglese e ha barba posticcia

    che esclude i seguenti tre stati:

    1) che l’assassino non sia inglese e non abbia barba posticcia
    2) che l’assassino non sia inglese e abbia barba posticcia
    3) che l’assassino sia inglese e non abbia barba posticcia.

    L’idea è dunque che più una proposizione esclude scenari possibili, più è portatrice di informazione. Escludere più scenari è precisamente lo scopo di ogni indagine. Il detective mira a escludere dalla lista dei sospettati più individui possibile, fino a fare quadrato attorno all’assassino; il medico tende a escludere più malattie possibile dall’insieme di quelle che potrebbero spiegare i sintomi presenti, fino a individuare l’unica diagnosi coerente coi dati; lo scienziato ambisce a scartare il maggior numero possibile di spiegazioni dei fenomeni, in modo da identificare qual’è la sola legge, fra le tante, che li descrive correttamente.

    Perché la deduzione qui non serve

    La grande virtù della deduzione, come si diceva, è di essere un’inferenza valida. Questo significa che, se sono vere le premesse, è sicuramente vera anche la conclusione. La conservazione della verità è una proprietà molto preziosa per una modalità di ragionamento, perché, ammesso di disporre di premesse di cui siamo certi, essa ci consente di essere certi anche della conclusione. Purtroppo, questo vantaggio è ampiamente superato da un grande difetto della deduzione, così grande da renderla praticamente inutile.

    L’informazione contenuta nella conclusione viene soltanto esplicitata dalla derivazione logica, ma era già tutta contenuta nell’insieme delle premesse. Ciò significa che non abbiamo realizzato sostanziali progressi rispetto a ciò che sapevamo prima di trarre la conclusione. Abbiamo sistemato l’informazione in una veste più sintetica e maneggevole rispetto al modo in cui era espressa dalle premesse, ma si tratta esattamente della stessa quantità di informazione.

    Prendiamo la seguente deduzione:

    se oggi è giovedì, allora Paolo Morgiasi trova a Mestre

    oggi è giovedì

    dunque

    Paolo Morgia si trova a Mestre.

    La prima premessa escludeva già da sola lo scenario:

    oggi è giovedì e Paolo Morgia non si trova a Mestre.

    Restavano perciò tre scenari possibili:

    1) oggi è giovedì e Paolo Morgia si trova a Mestre
    2) oggi non è giovedì e Paolo Morgia si trova a Mestre
    3) oggi non è giovedì e Paolo Morgia non si trova a Mestre.

    La seconda premessa, poi, permette agevolmente di escludere anche gli scenari 2) e 3).

    L’insieme delle premesse è quindi coerente soltanto con lo scenario 1), e la conclusione si limita ad affermare questo fatto, evitando di ripetere che oggiè giovedì, visto che ciò è già esplicitamente presente nelle premesse.

    E’ evidente che la deduzione potrebbe rivelarsi utile ai fini di un’indagine solo se nelle premesse a nostra disposizione fosse già contenuta, seppure implicitamente, tutta l’informazione necessaria per la soluzione finale. E questo, come tristemente sanno scienziati, medici e detective, non si verifica mai. Nella scienza, ad esempio, i dati osservativi di cui possiamo disporre sono sempre compatibili con infinite diverse teorie (si pensi ai lavori di W.V.O. Quine, e alle sue nette posizioni sullo scollamento fra base osservativa e teoria).

    L’idea che le teorie scientifiche attualmente in voga non siano le uniche spiegazioni coerenti dei fenomeni può risultare difficile da accettare, ma si pensi allora all’indecidibilità tra la concezione realista sugli oggetti, che tutti condividiamo, e le posizioni scettiche e idealiste, secondo cui non esiste il mondo esterno ma solo io che lo penso. Gli stessi fenomeni, cioè i miei dati sensoriali, possono essere spiegati perfettamente in molti modi differenti e incompatibili fra di loro.

    Nella filosofia del linguaggio contemporanea, tesi analoghe sono state sostenute (ancora da Quine, e da Donald Davidson) riguardo l’indeterminatezza della traduzione: un antropologo che osservasse i parlanti di una lingua sconosciuta, cercando di costruire una interpretazione dei loro comportamenti verbali nella propria lingua, non potrebbe mai approdare ad un’unica interpretazione, ma disporrebbe sempre di una molteplicità di soluzioni valide. Questo si verifica indipendentemente dalla quantità di osservazioni fatte, e a meno di criteri extraosservativi che entrino in gioco a far preferire un’interpretazione ad un’altra (1). Anche nelle indagini investigative, le tracce e gli indizi a disposizione dell’investigatore non sono (quasi) mai sufficienti a formulare un’accusa precisa con la stessa sicurezza con cui si sa che le prove e gli indizi sono autentici. Essi sono compatibili con molte spiegazioni diverse.

    Supponiamo che qualcuno sia entrato nel British Museum attraverso la finestra e abbia rubato una saliera. I dati di cui disponiamo sono i seguenti:

    Paolo Morgia e Marco Figliolia sono collezionistiinteressati ad avere quella saliera

    fuori della finestra ci sono orme di scarpecon tacco rotto

    nell’abitazione di Paolo Morgia era nascosto un paio di scarpe con tacco rotto

    Paolo Morgia non ha un alibi.

    Le eventualità sono innumerevoli. Potrebbe essere stato Paolo Morgia, naturalmente. Ma può darsi che il colpevole sia Marco Figliolia, che vuole far cadere i sospetti su Paolo Morgia per allontanarli da sé. O potrebbe essere stato un collezionista di Caracas che non abbiamo preso in considerazione. O un nemico di antica data di Paolo Morgia. In breve, questo insieme di premesse è molto poco informativo, perché esclude pochissimi scenari. Da un punto di vista rigorosamente logico, i dati sono coerenti con la colpevolezza di ogni singolo individuo esistente sulla Terra.

    E’ perciò chiaro che, se il nostro scopo è formulare l’ipotesi della colpevolezza di un individuo particolare, non possiamo affidarci alla deduzione. In un caso simile al nostro, utilizzare soltanto procedure deduttive significherebbe la paralisi completa, perché non si giungerebbe mai a generare una conclusione utile. Ecco che dobbiamo affidarci ad un tipo diverso di inferenza, che ci consenta di raggiungere una conclusione del tipo:

    (forse) il colpevole è Paolo Morgia.

    Questa inferenza non è affatto valida, perché potrebbe darsi il caso che le premesse siano vere e nonostante ciò la conclusione sia falsa. Ma abbiamo prodotto un grande aumento di informazione semantica. La conclusione esclude numerosissimi scenari, ovvero tutti quelli in cui Paolo Morgia non è colpevole. E’ proprio ciò che occorreva per permettere all’indagine di procedere. Ora abbiamo un’ipotesi. Beninteso, essa ha tutti i caratteri della provvisorietà, e andrà controllata con attenzione prima di essere resa definitiva. Ma siamo andati oltre ciò che ci dicevano le premesse.

    Induzioni e abduzioni

    Un’inferenza di questo tipo, non valida ma che accresce l’informazione semantica, è genericamente chiamata “induzione” nella letteratura cognitiva contemporanea. Ovviamente, il termine “induzione” è tradizionalmente associato alla questione del passaggio da un certo numero di premesse particolari a una conclusione di carattere generale. In questa veste, il cosiddetto “problema dell’induzione” si è posto a tutti i filosofi interessati alla natura della conoscenza, e soprattutto Hume ha messo in luce l’invalidità dell’inferenza induttiva.

    Dopo Hume, è noto che nessun numero, di proposizioni osservative, per quanto grande, può garantire la verità di una teoria universale esplicativa. Ciò significa che, sebbene voi abbiate sempre osservato la proprietà di essere un corvo invariabilmente associata alla proprietà di essere nero, non potete legittimamente affermare la legge generale che tutti i corvi sono neri, perché potrebbe ancora esistere un corvo non nero in qualche luogo del mondo, che né voi né nessun altro ha mai osservato.

    E’ possibile mostrare che le caratteristiche fondamentali di questa nozione ristretta di “induzione” sono la mancanza di validità logica e l’aumento di informazione semantica nella conclusione, caratteristiche che definiscono la nozione piu ampia di “induzione”: dunque la prima non sarebbe che un caso particolare della seconda.

    In realtà il padre della semiotica moderna, Charles Sanders Peirce, ha distinto all’interno di ciò che abbiamo chiamato “induzione in senso largo” due tipi di inferenza diversi: l’induzione e l’abduzione. All’induzione è riservato il ruolo classicamente inteso di astrarre una legge generale:

    questi fagioli sono bianchi(risultato)

    questi fagioli provengono da quel sacco(caso)

    (forse) tutti i fagioli che provengono
    da quel sacco sono bianchi (regola)

    mentre l’inferenza che per eccellenza guida il ragionamento investigativo è l’abduzione, che consente di approdare a proposizioni singolari, come “il ladro è Paolo Morgia”.

    Nell’abduzione, ci si trova di fronte a un risultato misterioso o inspiegato (ad esempio, “ci sono orme di scarpe con tacco rotto fuori della finestra”), e allora si cerca di immaginare una regola che, se fosse vera, spiegherebbe il risultato rendendolo non più bizzarro, ma perfettamente chiaro (ad esempio, “se il ladro è Paolo Morgia, ha lasciato lui le orme, con le scarpe che nascondeva in casa”). A questo punto, l’abduzione procede traendo la conclusione che “il ladro è Paolo Morgia”.
    Ecco lo schema dell’abduzione come lo illustra Peirce:

    questi fagioli sono bianchi(risultato)

    tutti i fagioli che provengono
    da quel sacco sono bianchi(regola)

    (forse) questi fagioli provengono da quel sacco(caso)

    Come nel caso dell’induzione, abbiamo un aumento di informazione semantica, e l’inferenza non è valida. Stiamo scommettendo sul fatto che i fagioli provengano da quel sacco, ma, pur restando vere le premesse, potrebbero benissimo provenire da qualche altra parte. L’abduzione comporta che venga escogitata una legge che funga da premessa, e in questo senso costituisce il procedimento che caratterizza la maggioranza degli atti di creatività scientifica e investigativa, dalle scoperte scientifiche alle geniali soluzioni di misteri e rompicapi di ogni tipo.

    Le cose stanno dunque in questo modo: gli investigatori effettuano dei ragionamenti rischiosi. Il rischio è ineliminabile: può essere ovviamente controllato, ma la sua presenza è la condizione necessaria affinché le inferenze siano euristicamente efficaci, e non tautologiche. Se si trattasse solo di dedurre meccanicamente, un computer sarebbe un detective molto migliore di Sherlock Holmes. Ma non esistono leggi dell’induzione e dell’abduzione nello stesso modo in cui esistono le leggi della logica classica per la deduzione. Quella di formulare l’ipotesi giusta è un’abilità flessibile e olistica, probabilmente costituita da infinite sotto-abilità cognitive diverse, assortite in una proporzione tipicamente umana. Un detective deve dominare implicitamente una quantità di informazioni sconvolgente, deve adattare continuamente le sue strategie di pensiero al contesto, deve conoscere le dinamiche emozionali e deliberative degli esseri umani, a loro volta sfuggenti alle categorie nette della logica.

    Forse il futuro ci consegnerà dei computer capaci di effettuare induzioni e abduzioni utili, ma si tratterà di computer dotati di strategie che, simili o no a quelle umane, dovranno necessariamente superare i limiti della rigidità della logica classica, deduttiva e perciò certa, ma sterile.

    Rischiare sapendo di rischiare

    Avere a che fare con inferenze rischiose non è di per sé un problema, perché le ipotesi possono essere corroborate e rafforzate. Il pericolo, tuttavia, è quello di non tenere a mente che i propri cammini di ragionamento sono soggetti all’errore. Spesso le persone che praticano ragionamenti induttivi e abduttivi credono di avere dimostrato qualcosa.

    E’ ovvio che credere (implicitamente) di compiere inferenze logicamente valide, mentre in realtà si compiono inferenze non valide, costituisce una grande fonte di confusioni e di abbagli. Si potrebbe giungere a ritenere che la propria conclusione è definitiva e certa (almeno nella misura in cui si giudicano certe le premesse da cui si parte), e ciò può indurre a non abbandonarla più, anche se nuove strade piu fruttuose potrebbero aprirsi, o si sono di fatto aperte.

    Gran parte degli “errori di ragionamento” che la psicologia cognitiva ha da tempo individuato e classificato possono essere interpretati come induzioni o abduzioni che vengono erronemente scambiate per deduzioni dai loro autori. Ad esempio, è molto frequente imbattersi in casi di persone che ragionano nel modo seguente:

    è certo che i dilettanti lasciano sempre
    una traccia di qualche tipo

    è certo che sono state lasciate tracce

    dunque,

    è certo che il colpo è stato commesso

    da dilettanti.

    Supponiamo che le premesse siano davvero certe; la conclusione non lo è, perché le premesse autorizzano la possibilità che il colpo sia stato commesso da ladri professionisti, i quali hanno seminato false tracce con il preciso scopo di far pensare che si trattasse di dilettanti. La stessa inferenza è dunque utilissima se viene vista come un’abduzione, ma è nociva se la si ritiene una deduzione valida, perché rende inamovibile una conclusione che invece dovrebbe costituire al massimo un’ipotesi di lavoro.

    Un altro ragionamento che a molte persone sembrerebbe corretto è questo:

    è certo che tutti i dirigenti dell’Urca
    hanno aderito alla società criminale Spectre

    è certo che nessun cittadino inglese
    è mai stato dirigente dell’Urca

    dunque,

    è certo che nessun cittadino ingleseha mai aderito
    alla società criminale Spectre.

    Anche qui, è lecito credere che la conclusione sia una congettura plausibile, ma, anche se siamo certi delle premesse, sarebbe un errore essere certi della conclusione. Quel ragionamento è un sillogismo, e tutto ciò che esso autorizza a concludere con certezza è che:

    almeno alcuni degli aderenti alla societàcriminale Spectre non sono cittadini inglesi.

    La prima conclusione è invece molto piu forte, ed è un’ipotesi niente affatto certa.

    Controlli che fanno acqua

    Ammettiamo pure che voi siate dei bravi ragionatori, e che siate capaci di dare vita a congetture interessanti senza illudervi che siano sicure e definitive. Come procedete per controllare l’ipotesi che avete fatto? La maggioranza di voi è vittima di un altro, pericolosissimo errore strategico, che preclude la possibilità di approdare alla soluzione corretta.

    Supponiamo che davanti a voi abbiate quattro carte:

    Sapete che ogni carta ha una lettera su un lato e un numero sull’altro. Supponiamo ancora che vi venga annunciata l’ipotesi: “se una carta ha una vocale su un lato, allora ha un numero pari sull’altro”. A questo punto, sta a voi decidere quali carte è necessario girare per scoprire se l’ipotesi è vera oppure è falsa.

    Provate a fare la vostra scelta, prima di continuare a leggere.

    Quasi tutti girano la “e” (è giusto: se ci fosse un numero dispari sull’altro lato, la regola sarebbe falsa), ma molti girano il 4 o il “k” (è superfluo: qualunque cosa ci sia sull’altro lato, la regola è comunque inviolata), mentre quasi nessuno gira il 7 (è indispensabile: se dietro c’è una vocale, la regola diventa falsa) (2).

    Il motivo principale di questo comportamento sembra risiedere nella tendenza alla conferma di cui è facile divenire preda durante le operazioni di controllo di una congettura. Esistono certamente molte altre ragioni che concorrono a produrre questo risultato, tra cui la pigra inclinazione a considerare solo le carte che siano state esplicitamente menzionate nell’ipotesi, ma il fattore dominante appare la tendenza a confermare piuttosto che a falsificare.

    In effetti, anche il pensiero scientifico nella sua totalità ha risentito di questa fallacia, dato che tutta la filosofia della scienza moderna ha disperatamente tentato di mettere a punto procedure infallibili di conferma delle leggi scientifiche. Addirittura, il movimento neopositivista si è imposto nella prima parte di questo secolo proponendo la verificabilità come criterio di sensatezza del linguaggio, e di demarcazione fra scienza e metafisica. Karl Popper ha affermato di essere stato lui a “uccidere il neopositivismo”, e uno dei colpi mortali è senza dubbio quello sferrato a tutte le concezioni induttiviste, e alla vana abitudine di tentare di verificare le teorie (3). Popper ha ribadito le conclusioni che già Hume aveva tratto riguardo all’induzione, affermando che la pretesa che una teoria universale sia vera non può in nessun caso essere giustificata da ragioni empiriche. Ma egli ha notato che la pretesa che una teoria universale sia falsa può, questa sì, essere legittimata attraverso ragioni empiriche. Esiste un’asimmetria logica grazie alla quale l’assunzione della verità di alcune proposizioni osservative può dimostrare la falsità di una teoria generale. Si tratta di una procedura certa, poiché fa uso della struttura deduttiva detta modus tollens.

    La teoria implica qualcosa, ovvero l’impossibilità del verificarsi di alcuni fatti. Se questi fatti si verificano, ciò che la teoria implica risulta falso, e questo significa che la teoria è falsa.

    Tutto ciò comporta alcune importanti conseguenze per gli scienziati: in primo luogo, le teorie non sono mai verità accertate, ma ipotesi più o meno corroborate. Esse non possono mai vedere sancita la propria verità, e solo la loro falsità può essere “dimostrata” (nella misura in cui si prendono per vere le proposizioni osservative che confutano la teoria).

    In secondo luogo, il compito dello scienziato è di tentare di falsificare con ogni mezzo le ipotesi che egli stesso genera. Questo dovere può risultare antintuitivo, e persino sgradevole, ma è il miglior servizio che può essere reso alle proprie supposizioni, dato che esse, in caso resistano ai tentativi di confutarle, vedono crescere le proprie possibilità di essere vere.

    Benché le conclusioni piu tipiche del ragionamento investigativo siano proposizioni singolari (come “il colpevole è Paolo Morgia”), che in quanto tali possono essere sia verificate (da “Paolo Morgia è stato filmato dalle telecamere del Museo”) sia falsificate (da “Paolo Morgia si trovava in Corea al momento del furto”), l’abitudine a tentare di falsificare le proprie congetture anziché a tentare di verificarle è senz’altro salutare per un’indagine. Da un punto di vista logico, le premesse delle inferenze abduttive e induttive sono spesso proposizioni universali affermative, e sono dunque suscettibili di falsificazione ma non di verificazione. Soprattutto, da un punto di vista cognitivo, è necessario contrastare quella naturale inclinazione alla conferma che, in assenza di metacontrollo, costituisce un grave pericolo. Senza la continua spinta alla confutazione, rischiamo di rassicurarci sulla verità di conclusioni sbagliate, rendendo impossibile la scoperta della vera soluzione: spesso un vizio del ragionamento si annida proprio nella scorrettezza di una premessa che non siamo piu in grado di mettere in discussione.

    Volere bene a un’ipotesi

    Sono molti gli esperimenti che mostrano l’entità e le conseguenze nefaste della “tendenza alla conferma” nei normali ragionatori. Wason (1960) ne ha dato un’illustrazione esemplare col celebre “problema delle triplette”.

    Ai soggetti viene proposta una successione numerica come “2 4 6”, e viene chiesto loro di arrivare a scoprire la regola generale sottostante. I soggetti possono sottoporre allo sperimentatore altre triplette, e lo sperimentatore risponde “sì” o “no” a seconda che esse soddisfino o meno la regola.

    I soggetti devono enunciare la regola solo quando sono certi di avere la soluzione. Ebbene, come è naturale prevedere, i soggetti ipotizzavano regole come “successione ascendente dei multipli di 2” o “successione ascendente di numeri con uguale intervallo”, e poi tentavano di confermare le loro ipotesi. Ciò significa che essi proponevano allo sperimentatore solo triplette che fossero esempi positivi delle loro regole ipotetiche, come “24 26 28” o “28 35 42”.

    Dato che la regola corretta era “successione ascendente”, lo sperimentatore accettava sempre le triplette proposte dai soggetti come esempi della vera regola, in ciò che a loro sembrava la conferma della correttezza della loro ipotesi. Quasi nessuno è capace di indovinare la vera regola. E’ preoccupante che nella vita reale non esistano sperimentatori caritatevoli che ci rivelano la vera regola, ma in queste condizioni la cosa più intelligente da fare è tentare di confutare con tutte le proprie forze le proprie congetture anziché confermarle.

    In molte circostanze, la tendenza alla conferma può determinare un tenace attaccamento alle proprie ipotesi, anche in abbondanza di segnali che inviterebbero a fare il contrario. Rumiati (1990) riporta evidenze sperimentali di questo rifiuto a tornare sui propri passi, ed è molto significativo il lavoro di Pitz, Downing & Reinhold (1967) a proposito della forte influenza dell’ordine di presentazione dell’evidenza sulle convinzioni dei membri delle giurie dei processi.

    E’ drammaticamente chiaro che la prima opinione è quella che conta, e che è altamente improbabile che i giurati siano disposti a metterla in discussione. Ciò significa che se l’accusa parla per prima e riesce a portare i giurati ad abbracciare l’ipotesi della colpevolezza dell’imputato, in seguito le prove anche schiaccianti portate dalla difesa a sostegno dell’innocenza potrebbero infrangersi su un muro di sordità cognitiva.

    Queste forme di inerzia raggiungono vette di spettacolarità nel caso dell’Ammiraglio Kimmel, comandante in capo della Flotta del Pacifico degli Stati Uniti, la cui base era a Pearl Arbour. Kimmel, nel corso del 1941, aveva ragione di prevedere una guerra lunga e stanziale con il Giappone, e si impegnò a predisporre un piano di addestramento delle truppe e di approvvigionamento di viveri e materiali agli avamposti in Estremo Oriente.

    Alla fine del 1941, le cose cambiarono. C’era una molteplicità di segnali, alcuni anche piuttosto espliciti, che suggerivano che la base di Pearl Arbour avrebbe potuto subire un attacco improvviso e devastante. L’Ammiraglio semplicemente ignorò quei segnali. Egli era sensibile unicamente agli avvenimenti che confermassero l’ipotesi che aveva abbracciato, e sulla cui base aveva faticosamente lavorato.

    Pur di salvare un’ipotesi cui ci siamo affezionati dalla disfatta della confutazione, siamo disposti a ignorare selettivamente i dati su cui dovremmo basarci, a illuderci con razionalizzazioni difettose e a praticare il wishful thinking, che consiste nel sopravvalutare la probabilità degli eventi che desideriamo si verifichino. Ciò mostra come le emozioni e le passioni entrino pesantemente nei processi di ragionamento e di deliberazione, e quanta attenzione dobbiamo impiegare quando esigiamo che il solo scopo delle nostre riflessioni sia la ricerca della verità.

    Bibliografia

    Umberto Eco e Thomas A. Sebeok, (a cura di) The Sign of Three. Dupin, Holmes, Peirce, Bloomington, Indiana University Press,1983 (trad. it. Il Segno dei Tre, Milano, Bompiani, 1983).

    David Hume, Enquiry Concerning Human Understanding, 1739-1740; edizione critica a cura di Green & Grose, London, Longmans, 1874-75 (trad. it. “Trattato sulla Natura Umana”, in Opere Filosofiche, volume primo, Roma-Bari, Laterza, 1987).

    Philip N. Johnson-Laird, Mental Models, Cambridge University Press, 1983 (trad. it. Modelli Mentali, Bologna, Il Mulino, 1988)

    Philip N. Johnson-Laird, Human and Machine Thinking, Hillsdale (New Jersey), Erlbaum, 1993, (trad. it. Deduzione Induzione Creatività, Bologna, Il Mulino, 1994).

    Charles Sanders Peirce, Collected Papers, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1931-1935 (trad. it. parziale in Le Leggi dell’Ipotesi, Milano, Bompiani, 1984; e in Semiotica, Torino, Einaudi, 1980).

    G.F. Pitz, L. Dowing and H. Reinhold, “Sequential Effects in the Revision of Subjective Probabilities”, Canadian Journal of Psychology, 21, pp. 381-393,1967.

    Karl Popper, Logik der Forschung, Wien, Julius Springler Verlag, 1934 (trad. it. Logica Della Scoperta Scientifica, Torino, Einaudi, 1970).

    Karl Popper, Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford, Clarendon Press, 1972 (trad. it. Conoscenza Oggettiva. Un Punto di Vista Evoluzionistico, Roma, Armando, 1975).

    Rino Rumiati, Giudizio e Decisione, Bologna, Il Mulino1990, .

    Marcello Truzzi, “Sherlock Holmes: Applied Social Psychologist”, in Marcello Truzzi (a cura di), The Humanities as Sociology. An Introductory Reader, Columbus (Ohio), Merrill 1973; ristampato in Eco e Sebeok (1983).

    P. C. Wason, “On the Failure to Eliminate Hypotheses in a Conceptual Task”, Quarterly Journal of Experimental Psychology, 12, pp. 129-140, 1960.

    P. C. Wason, & Philip N. Johnson-Laird, Psychology of Reasoning: Structure and Content, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; London, Batsford, 1972 (trad. it. Psicologia del Ragionamento, Milano, Martello-Giunti, 1977).

    Note

    1) Vedi W.V.O. Quine, Word and Object, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1960 (trad. it. Parola e Oggetto, Milano, Il Saggiatore, 1970), in particolare il celebre secondo capitolo;
    anche Donald Davidson, “Radical Interpretation”, Dialectica, 27, 1973, pp. 313-328; ristampato in Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford, Oxford University Press, 1984 (trad. it. Verità e Interpretazione, Bologna, Il Mulino, 1994).

    2) L’esperimento è ormai un classico della psicologia del ragionamento, ed è stato messo a punto da Wason & Johnson-Laird (1972). Vedi anche Johnson-Laird (1983), capitolo 2.
    Secondo l’interessante scoperta di Wason e Johnson-Laird il contenuto influisce sul ragionamento, tanto che l’irrazionalità scompare se si propone la regola: “se una busta è chiusa, deve essere affrancata con un francobollo da 800 lire”, e 4 buste: due dal lato dell’apertura, una aperta e una chiusa, e due dal lato dell’indirizzo, una affrancata con un francobollo da 500 lire e l’altra con un francobollo da 800 lire. I soggetti, immaginando di dover controllare che la norma postale sia stata rispettata, scelgono correttamente di voltare le due buste rivelatrici, che sono quella chiusa e quella affrancata con un francobollo da 500 lire. Questo fenomeno viene usato per negare l’esistenza di una logica mentale e la natura puramente sintattica del ragionamento, a sostegno di una concezione semantica dell’inferenza umana, che opererebbe servendosi di modelli mentali.

    3) Un altro colpo micidiale è stata la critica all’illusione che esistesse una speciale classe di enunciati, gli enunciati osservativi o protocolli, che non fossero compromessi con alcuna teoria, e che dunque fossero assolutamente certi. Nella visione neopositivista della scienza, i protocolli erano le fondamenta su cui edificare l’edificio scientifico, trasportando la loro sicurezza ai piani più alti. Popper ha mostrato che tutti gli enunciati, anche gli enunciati di controllo, sono ipotetici e congetturali, “imbevuti di teoria”.

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