Un mare di plastica

A quei pochi fortunati bagnanti che ancora non se ne erano accorti di persona, lo ha ricordato la Giornata Mondiale dell’Ambiente, celebrata lo scorso 5 giugno: lo stato di salute dei nostri mari non è dei migliori. Per il 2004, infatti, il World Environmental Day (Wed), istituito dall’Onu nel 1972, ha deciso di focalizzare la sua attenzione sul problema dell’inquinamento delle acque. Una giornata per pensare al “sesto continente”, promuovere l’avvio di buone pratiche nei confronti di questo ecosistema, stimolare la ricerca sugli oceani e i suoi abitanti. D’altra parte, che ci fosse da preoccuparsi lo aveva già annunciato un articolo pubblicato poche settimane fa su “Science”. Lungo le spiagge e nelle acque che circondano la Gran Bretagna, sono stati ritrovati numerosi composti di fibre artificiali o polimeri come acrilico, poliestere e nylon. Quel che è peggio, queste sostanze sono state rinvenute persino nel plancton, i microrganismi che sono alla base della catena alimentare marina. Una squadra di ricercatori inglesi dell’Università di Plymouth ha raccolto campioni in 17 luoghi diversi. Trovando grandi percentuali di plastiche e fibre artificiali non soltanto nelle acque, ma anche nelle arenicole (i comuni vermi rossi che si trovano sulla sabbia) e nei cirripedi, una varietà di minuscoli crostacei marini. Ma è allarmante anche il rapporto delle Nazioni Unite presentato proprio in occasione del Wed: più di un milione di uccelli marini e oltre 100 mila tartarughe muoiono ogni anno a causa dei rifiuti non biodegradabili lasciati in mare. Intere bottiglie, pezzi di polistirolo e sacchetti della spesa sono stati trovati negli stomaci di leoni marini, delfini, tartarughe. E pezzi di plastica sono stati trovati anche in esemplari di procellaria artica, una varietà di gabbiano. Pur non essendo dunque un inquinante “diretto”, nel senso che non rilascia sostanze tossiche, la plastica ha ugualmente un forte impatto ambientale proprio perché, non essendo biodegradabile, entra nella catena alimentare quando viene ingerita da uccelli o pesci di grossa taglia. In generale, dagli anni Sessanta a oggi, la percentuale di spazzatura di plastica nei mari e negli oceani è più che triplicata. “Da una parte abbiamo i rifiuti lasciati dagli esseri umani lungo le spiagge e che poi vengono trascinati dalle correnti, dall’altra il fenomeno della risalita delle acque profonde”, spiega Antonio Pusceddu, docente di Ecologia presso l’Università delle Marche e da tempo studioso della cosiddetta “beach litter”, la spazzatura di spiaggia. “La plastica è un residuo inerte che in oceano diventa un substrato duro, cosa che permette in tempi rapidi la colonizzazione da parte di organismi incrostanti, dai batteri alle spugne e coralli”. La plastica come fonte di biodiversità? Dobbiamo insomma rivalutare la funzione dei rifiuti in mare? “A questo proposito”, continua Pusceddu, “ci sono numerose tesi. In generale bisogna dire che la plastica permette l’installarsi in un ecosistema di specie invasive che fino a quel momento non ne avevano le condizioni. Possiamo dire dunque che più che creare una biodiversità, la sposta”. I detriti di plastica libera, fluttuante, possono inoltre diventare trasportatori di specie per migliaia di chilometri. Si conoscono per esempio varietà biologiche che si sono spostate attraverso dall’Artico all’Atlantico proprio utilizzando questo nuovo vettore. “Possiamo affermare che la spazzatura umana duplica la possibilità di mobilità delle diversità ambientali”, aggiunge l’ecologo. Nei prossimi mesi sono tante le iniziative destinate ad approfondire lo studio degli ecosistemi marini. A fine luglio si terrà a Genova il simposio europeo di biologia marina, MBES, che ogni due anni focalizza l’attenzione sulle biodiversità negli oceani e nel Mediterraneo. Benché non si abbiano dati aggiornati su quello che gli esperti definiscono “un piccolo oceano caldo”, il mare nostrum merita un’attenzione particolare per le sue caratteristiche svantaggiose: da una parte la sovrappopolazione delle sue coste, dall’altra lo sbocco di fiumi come il Po e il Reno che riversano in mare una enorme quantità di rifiuti e detriti. “Il fatto di essere semichiuso e particolarmente caldo anche ad alte profondità fa sì che si creino zone di accumulo che portano all’estinzione di specie”, spiega ancora Pusceddu. Come affrontare il problema? “La ricerca si sta spostando in questo momento sui microrganismi e batteri capaci di degradare qualsiasi tipo di organismo, compresi, in alcuni casi, gli idrocarburi”. Batteri in grado di rendere meno pericoloso il petrolio, nuovi spazzini dei mari.

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