Un sostegno alla ricerca

Riparte la campagna “Rompere il silenzio” per sostenere la ricerca sulla malattia di Duchenne, promossa dall’associazione di genitori Parent Project Onlus. Dal 10 al 29 febbraio è infatti possibile devolvere un euro inviando un Sms al numero 48584 (due euro chiamando da rete fissa). I fondi contribuiranno al programma di sperimentazione italiano condotto da Irene Bozzoni dell’Università Sapienza di Roma, cui abbiamo chiesto di spiegarci a che punto è la ricerca su questo tipo di distrofia che, secondo le stime, colpisce tra le tremila e le cinquemila persone solo in Italia.

Professoressa Bozzoni, le persone affette da distrofia di Duchenne non sono in grado di produrre distrofina funzionante e, senza questa proteina, i muscoli scheletrici vanno incontro a progressiva degenerazione. In che direzione si sta muovendo la ricerca?

“L’ostacolo più grande per il trattamento della malattia è rappresentato dalle enormi dimensioni del gene che codifica per la distrofina, di 2,4 milioni di basi. Questo lo rende il più grande gene del nostro Dna, ma soprattutto implica che la classica sostituzione genica non è attuabile. Il gene può presentare moltissime mutazioni che lo rendono non funzionante o mal funzionante, e al momento ci sono tre potenziali strategie terapeutiche. Una è quella farmacologica, attraverso la somministrazione di una molecola che però riesce a trattare un numero limitato di mutazioni. Le altre due sono terapie geniche: in un caso si riesce a ottenere una micro-distrofina, cioè una proteina che manca di tutta la parte centrale. L’altra terapia è quella dell’exon skipping, che stiamo tentando nel nostro laboratorio ormai da molti anni e che ha già dato alcuni promettenti risultati”.

In cosa consiste?

“Exon skipping significa letteralmente salto dell’esone. Gli esoni sono quelle parti del gene che portano l’informazione su come deve essere fatta una determinata proteina. Questa informazione passa dal Dna ai ribosomi (i costruttori delle proteine) grazie all’Rna messaggero: noi non agiamo sul gene (Dna), ma sulla molecola di Rna che porta il messaggio sbagliato e, prima che possa essere letto, lo modifichiamo. Questo viene fatto introducendo delle altre molecole di Rna chiamate antisenso, che individuano la parte da eliminare, vi si legano e impediscono che vengano incluse nell’RNA messaggero. Le mutazioni nella Duchenne sono tantissime. Quelle che stiamo tentando di curare sono quelle che possono essere corrette rimuovendo l’esone 51, ma se la terapia dovesse funzionare potrebbe essere utilizzata per molte altre mutazioni. Questo non significa curare del tutto la malattia, ma ridurne la gravità”.

Cioè?

“Trasformiamo la distrofia di Duchenne in quella di Becker. Tagliando via una parte dell’Rna messaggero infatti, otteniamo una proteina più corta di quella normale, ma comunque funzionante. Esistono malati di Becker che mancano naturalmente degli esoni 48, 49, 50 e 51, e vivono abbastanza bene. Nei casi di Duchenne gravi, in cui mancano gli esoni 48,49, e 50, togliere il 51 significa trasformarli in malati di Becker. Questo accade perché il codice delle proteine viene letto dai ribosomi a blocchi di tre lettere. Ma non tutti gli esoni sono composti da un numero di lettere multiplo di tre. Capita perciò che si possa sfasare la sequenza di lettura: il ribosoma si trova a dover ‘leggere’ una serie di parole scritte senza gli spazi corretti e, nella maggior parte dei casi, le interpreta come un segnale di ‘stop’. Il risultato è che il nostro organismo smette di produrre la distrofina. Nel nostro caso, togliere l’esone 51 significa ripristinare il corretto ‘registro di lettura’ tra il 47 e il 52”.

Come è possibile tagliare l’esone giusto?

“Ci sono due modi: uno farmacologico, che si serve di oligonucleotidi sintetici, molecole che inducono anch’esse exon skipping, e la sperimentazione di questa terapia è già in fase clinica da un anno. Ma l’effetto sulla distrofina dura il tempo vitale della molecola, che ogni due settimane circa deve essere somministrata nuovamente. Noi invece puntiamo a una terapia che sia quasi definitiva, portando all’interno delle cellule muscolari un gene che codifica per l’Rna che ci interessa. Per fare questo, abbiano sperimentato nel topo una strategia che prevede l’uso di un virus che trasporta il gene terapeutico all’interno delle cellule: il vettore viene iniettato in vena e arriva così in tutti i muscoli del corpo. Una volta giunto a destinazione all’interno delle cellule muscolari, il virus rilascia il gene terapeutico. Nelle scimmie questo Dna rimane funzionante per più di cinque anni e l’organismo produce la distrofina, anche se più corta”.

Quali sono i limiti potenziali di questa terapia?

“L’efficacia della terapia dipende da quanto il virus riesca a entrare in tutti i distretti muscolari. Per ora lo si sta rilasciando localmente tramite iniezione e non si sa se il vettore possa davvero raggiungere tutti i muscoli se immesso per via sistemica. La possibile risposta immunitaria è l’altro ostacolo: il virus ha un involucro proteico che può scatenare una difesa da parte dell’organismo che lo riceve. Questo renderebbe possibili le somministrazioni successive alla prima solo dopo un’immuno-soppressione del paziente per circa un mese”.

Quali sono i prossimi obiettivi?

“La fase preclinica dovrebbe cominciare quest’anno, con gli studi di tossicologia sul virus. Questo significa trattare un buon numero di topi e verificare che gli animali non manifestino effetti secondari di tossicità. In questo caso si provvederà a redigere un protocollo clinico da sottoporre all’Emea (Agenzia europea per la valutazione dei medicinali) per cominciare la sperimentazione sull’essere umano con iniezioni locali. Il sostegno di Parent Project ci dà la possibilità di avviare un trial clinico italiano per la Duchenne, che andrà ad affiancare le altre sperimentazioni in corso nel resto del mondo”.

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