Hiroshima e Nagasaki, una bomba, tre destini

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Here is the news: It’s dominated by a tremendous achievement of Allied scientists -the production of the atomic bomb. One has already been dropped on a Japanese Army base”. Con queste parole, la sera del 6 agosto 1945, la BBC annunciò al mondo che una bomba atomica era stata appena lanciata su “una base militare giapponese”. Quella base era, in realtà, Hiroshima: una città. Tre giorni dopo, anche Nagasaki fu colpita, ed era ancora un obiettivo civile. I due episodi cambiarono per sempre la storia inaugurando l’era nucleare. Proviamo a rivivere quei drammatici eventi, attraverso il racconto di tre testimoni dell’impresa atomica.

Shoji Sawada, l’hibakusha

”Ero nato a Hiroshima e nella fase finale della guerra, nel ‘45, ero uno studente di scuola media”, comincia a raccontare Shoji Sawada. Ha una cortesia tutta orientale e l’urgenza di far capire fin dall’inizio che non considera il suo paese solo una vittima, perché ha subito l’unico bombardamento atomico della storia, lo considera anche un carnefice, visto che, durante la guerra, il Giappone si è reso responsabile di crimini efferati contro le popolazioni civili dell’Asia. Shoji Sawada è un “hibakusha”, ovvero un sopravvissuto al bombardamento atomico, ma forse nel suo caso è più appropriato parlare di “miracolato”.

Aveva appena tredici anni nell’estate del ‘45; e, in quel periodo, la situazione del suo paese era disperata. I bombardieri B-29 del generale americano Curtis Le May avevano ridotto il Giappone ad una spianata di macerie: nella sola notte del 9 marzo del ‘45, le bombe incendiarie di Le May, lanciate su Tokyo, avevano bruciato vivi 100.000 civili, lasciando un milione di feriti e un milione di senza tetto. Tokyo era distrutta, così come Yokohama e Nagoya e tutte le grandi città del Giappone. Perché – si chiedeva Sawada – Hiroshima è ancora intatta? Se non ci sbrighiamo a usare quella bomba, non rimarrà una sola città giapponese da bombardare, avevano concluso i comandi strategici americani, che, per capire gli effetti dell’atomica su una vasta area urbana, avevano bisogno di usarla contro un obiettivo che non fosse già stato pesantemente bombardato. Così, il 6 agosto, Sawada capì perché Le May aveva risparmiato Hiroshima. “Successe tutto in un istante”, racconta, “e quando ripresi i sensi mi ritrovai seppellito sotto le macerie della mia casa. Lottai per liberarmi e quando ci riuscii, mi resi conto che fuori era come notte: la luce del sole era bloccata dall’aria marrone scuro, che divenne gialla, poi bianca e finalmente trasparente.

A quel punto potevo vedere e rimasi scioccato, perché guardandomi intorno, almeno fin dove i miei occhi potevano arrivare, Hiroshima non c’era più”. Mentre si guardava intorno, Sawada sentì la madre che lo chiamava: era intrappolata sotto le macerie e le travi crollate le bloccavano le gambe. Provò con tutte le sue forze a liberarla, ma era solo un ragazzino: non ce la faceva. Chiamò in soccorso degli adulti, ma erano tutti feriti, sfigurati da ustioni terribili, con la pelle che penzolava giù dal mento o dalle unghie: non potevano far altro che scappare alla ricerca di un riparo sicuro, perché il fuoco ormai avanzava, divorando tutto. “Tu devi salvarti”, gli disse la madre, “devi studiare sodo e diventare una bella persona. Non dimenticarmi mai. Vattene subito!”. Scappò, chiedendole perdono.Pur trovandosi a soli 1.400 metri dal ground zero (1), Sawada uscì incolume dal bombardamento atomico e, ironia della sorte, studiò sodo per diventare fisico.

Un destino generoso gli ha risparmiato tutti i danni gravissimi che normalmente colpiscono le persone esposte a dosi massicce di radiazioni. Il pensiero della madre in mezzo alle fiamme, però, lo tormenta ancora. Come un perverso gioco di specchi, la guerra ribalta e inverte gioie e tragedie. Successe così anche quel giorno in cui Hiroshima venne azzerata.

Sam Cohen, l’ultrafalco

”Era il pomeriggio del 6 agosto del 1945 e nel laboratorio fu annunciato che una delle nostre ‘unità’ era stata lanciata sul Giappone e che in serata Oppenheimer avrebbe parlato allo staff scientifico”. Ha un tono molto compiaciuto, il fisico americano Sam Cohen. E ci tiene proprio a dire che è stato lui il primo a raccontare questa storia ai giornalisti, lasciandoli di stucco, perché – spiega – i media americani subivano il fascino della personalità complessa ed enigmatica di Robert Oppenheimer e non potevano credere che un raffinato umanista come lui – che aveva espresso tutta la propria ambivalenza verso l’impresa atomica nella frase “I fisici hanno conosciuto il peccato” – potesse essere, in realtà, un mostro. “Mostro”, sottolinea Sam Cohen con un tono grave.

E poi riprende: “Quella sera, Oppenheimer non passò dall’ingresso laterale, fece piuttosto un’entrata trionfale come Napoleone al ritorno da una grande vittoria. Mentre entrava, tutti – a eccezione forse di una o due persone – si alzarono in piedi, applaudendo e battendo i piedi; erano veramente orgogliosi che ciò che avevano costruito avesse funzionato ed erano orgogliosi di se stessi e di Oppenheimer, che a sua volta gongolava. Oppenheimer placò la sala e disse che si sapeva ancora poco del bombardamento: tutto ciò che si sapeva era che ai giapponesi la bomba non era piaciuta e che, in ogni caso, gli dispiaceva tanto di non aver potuto finire la bomba in tempo per usarla contro i nazisti. Di nuovo, scoppiò l’euforia generale. E alla maggior parte di quella gente non passò per la testa che quel laboratorio aveva appena ammazzato centomila civili innocenti”. Sam Cohen è quasi la caricatura del “falco”.

E anzi, è considerato un ultrafalco; un fisico che, quanto ad armi nucleari, non s’è fatto mancare nulla: ha lavorato alla costruzione dell’atomica, della prima bomba H e ha inventato la bomba N, o bomba al neutrone. Della sua esperienza nel Progetto Manhattan, parla con una franchezza a tratti brutale. Nomi, cognomi, giudizi trancianti, opinioni scioccanti: Sam Cohen non manda a dire niente a nessuno. E lei – gli chiediamo – come reagì alla notizia del bombardamento di Hiroshima? “Come gli altri”, risponde senza esitazione, “la mia reazione fu di totale euforia”, aggiungendo che mai, durante la guerra, si era preoccupato delle bombe incendiarie che bruciavano vivi i giapponesi: non aveva scrupoli di coscienza. Né, pur essendo ebreo, lavorò all’atomica per il timore che potessero acquisirla per primi i nazisti – come fece la stragrande maggioranza degli scienziati di Los Alamos – ci lavorò perché era “assolutamente eccitante”. Ma “ora sono un uomo diverso”, insiste. Crede nel principio della guerra giusta, che discrimina tra soldati combattenti e civili inermi ed è per questo che, verso la fine degli anni Cinquanta, inventò la bomba N. Di fronte a un’uscita del genere c’è da sospettare che stia cercando di provocare, perciò meglio non incalzarlo con una replica del tipo: “E così, secondo lei, un’arma nucleare che ammazza le persone, ma lascia intatti gli edifici, come la bomba N, sarebbe conforme al principio della guerra giusta?!”. Tergiversiamo, ma lui: “Sì, è molto discriminante”, insiste, “è un’arma da usare sul campo di battaglia contro le truppe nemiche, non per attacchi indiscriminati contro le città, come la bomba atomica”.

Ma – lo rimbecchiamo – se perfino Edward Teller non l’amava! “Perché non l’aveva inventata lui!”, ribatte col tono di chi strizza l’occhio all’interlocutore con un’uscita impertinente. E Breznev allora – rincariamo la dose- che le dette del “mostro”? “Mostro” è una parola che non lo turba, tuttavia, non gli scivola addosso, lasciandolo indifferente. Ma in ogni caso Sam Cohen ne ha per Breznev e per tutti gli altri. E’ un irriducibile, Sam Cohen. Un ottantaduenne (2) irriducibile che non ha rimpianti. Qualche giorno dopo la nostra intervista, ci risentiamo al telefono: “Scrivere che sono un falco”, dice subito, “è giusto: mi piace che il mio paese vinca le guerre. Ma ‘ultrafalco’ è un’etichetta veramente ingiusta. Non sono il mostro che dicono”.

Joseph Rotblat, l’uomo che seppe dire di no

Agli antipodi di Sam Cohen, ha dedicato l’intera vita al disarmo nucleare. Di quel 6 agosto non ricorda applausi ed entrate trionfali. “Fui assolutamente scioccato, arrabbiato e spaventato”, racconta, aggiungendo con voce ferma: “le prove dimostrano che i giapponesi erano pronti ad arrendersi, ma Truman (3) rigettò le loro aperture, perché la distruzione delle città giapponesi era necessaria per dimostrare ai sovietici la nuova potenza militare degli Stati Uniti”.Un vecchio studio pieno di fotografie in bianco e nero, proprio di fronte al British Museum. E, su un divano, un maestoso novantacinquenne (4), dall’intelligenza vivace, una memoria che impressiona e due occhi vivi, che luccicano tra le rughe; hanno visto così tante cose. Joseph Rotblat, il novantacinquenne in questione, è l’unico fisico che piantò tutto appena seppe. Polacco e di origini ebree, ebbe la fortuna di prendere una borsa di studio proprio nel marzo del ‘39; la guerra era alla porte e lui era un giovane fisico di valore: lo volevano sia Frédéric Joliot-Curie, genero della mitica Marie Curie, sia James Chadwick, il fisico che aveva scoperto il neutrone. Il primo lo invitò a Parigi; il secondo a Liverpool, in Inghilterra. Optò per Liverpool.

E fu la sua salvezza: lasciando la Polonia, sfuggì alla sorte degli ebrei polacchi – completamente sterminati – e scegliendo l’Inghilterra, scampò alle armate del Führer, che, scoppiata la guerra, entrarono a Parigi senza colpo ferire. “Se fossi andato in Francia”, dice con un velo di tristezza, “molto probabilmente, non sarei qui a raccontare la mia storia”. Arrivò in Inghilterra da solo, la giovane moglie era rimasta in Polonia, perché la borsa di studio era appena sufficiente per una persona, ma fece di tutto per averla con sé: cercò i canali giusti, le procurò i documenti e le organizzò il viaggio. Non servì a nulla: un’appendicite la bloccò a letto, non era trasportabile. Finì in una camera a gas? “Non l’ho mai saputo”, racconta distogliendo lo sguardo per un istante. Poi torna a parlare: “Se Hitler avesse ottenuto la bomba, sarebbe stata la fine: avrebbe vinto la guerra e saremmo diventati tutti vittime del regime nazista. Questo pensiero per me era insopportabile”. Ma anche l’idea di usare la sua scienza per costruire un’arma di distruzione di massa gli era insopportabile: “Sentivo di non poterlo fare”, dice con un tono sicuro.

Ma quando scoppiò la guerra e Hitler soggiogò gran parte dell’Europa in un battibaleno, Rotblat non ebbe scelta. Andò a Los Alamos – cooptato da Chadwick- e lavorò sodo fino al novembre del ‘44. Poi, la svolta: “Verso la fine del 1944”, racconta, “seppi che i nazisti avevano abbandonato l’idea di costruire la bomba. In realtà, avevano piantato tutto fin dal 1942, ma noi non lo sapevamo. In ogni caso, appena ebbi quell’informazione, io non avevo più alcuna ragione per lavorare alla bomba: se Hitler non l’aveva, neppure noi ne avevamo bisogno. Ragionai in questo modo, e conseguentemente detti le dimissioni”. Ma lei – gli chiediamo – come ebbe quell’informazione? “Dall’intelligence”, ci dice, aggiungendo subito che in realtà gliela passò James Chadwick. Chadwick, infatti, era diventato il capo di tutta la sezione inglese del Progetto Manhattan e, visto l’incarico che ricopriva, aveva accesso ai servizi segreti. Proprio in virtù del rapporto che c’era tra loro, conosceva bene gli scrupoli morali di Rotblat, non li condivideva, ma li rispettava e così gli passò quell’informazione top secret. “Gli altri scienziati non l’avevano” racconta Rotblat, “e io fui l’unico a lasciare il Progetto”. Ma lei – gli chiediamo- non poteva dirlo agli altri scienziati? Se l’avessero saputo a quel punto, forse anche loro avrebbero smesso di lavorarci. “No, non potevo dirlo”, replica con prontezza, “ebbi dei grossi problemi, e una delle condizioni per lasciarmi andare via fu proprio quella di non parlare con nessuno di quello che ero venuto a sapere”. Rotblat lasciò Los Alamos nel dicembre del ‘44, tornò in Inghilterra e non seppe più nulla di quello che succedeva all’interno del Progetto. La sera del 6 agosto del 1945, fu la BBC a raccontargli l’epilogo della storia che aveva vissuto a Los Alamos, in prima persona.

Tre destini, due giustificazioni e 300.000 morti

Se i destini di Shoji Sawada e Sam Cohen – nei loro ruoli di vittime e carnefici – esemplificano come andò realmente la storia, la vicenda di Rotblat esemplifica come sarebbe potuta andare.

Sessant’anni dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, sia la decisione di costruire l’atomica sia quella di usarla contro le popolazioni civili delle due città giapponesi vengono ancora presentate come necessità ineluttabili. Quanto alla costruzione della bomba, per esempio, si continua a ripetere che l’impresa era interamente giustificabile. E non c’è dubbio, che nei primi anni della guerra lo era, perché effettivamente c’era la possibilità più che fondata che Hitler potesse arrivare per primo all’atomica e con essa mettere fine al mondo democratico. Poi, però, le cose cambiarono e la storia di Rotblat è una dimostrazione del fatto che la bomba poteva non essere costruita. Joseph Rotblat non è l’unico scienziato che si dissociò dal Progetto Manhattan per ragioni morali, è l’unico che, dopo esservi stato arruolato, lo lasciò “in corso d’opera”, ma ci furono altri scienziati che non accettarono di lavorare alla bomba per ragioni morali. E’ celebre, per esempio, il rifiuto di Franco Rasetti, uno dei ragazzi di via Panisperna, che ebbe anche parole molto dure nei confronti dell’amico e collega Enrico Fermi, per il suo ruolo nel Progetto Manhattan.

A differenza di Rotblat, però, Rasetti oppose un rifiuto a priori alla bomba. Il suo fu un no alla bomba “senza se e senza ma”, diremmo oggi. Rotblat, invece, non poteva permettersi una scelta di quel tipo, perché era (ed è) ebreo: per lui, la vittoria di Hitler non avrebbe significato semplicemente una tragedia, avrebbe significato l’annientamento delle camere a gas. E di fatto, nonostante i suoi scrupoli morali, Rotblat andò a Los Alamos e lavorò duro. Ma quando scoprì che la giustificazione alla base dell’impresa – ovvero battere Hitler nella corsa all’atomica – era venuta meno, piantò tutto. L’intelligence alleata venne a sapere con certezza che i nazisti non avevano la bomba alla fine del ‘44, grazie alla missione Alsos, che stabilì che non solo i tedeschi non avevano l’atomica, ma non erano mai arrivati ad avere un progetto nucleare incredibilmente strutturato e finanziato com’era quello alleato. Ed è chiaro che se non c’erano arrivati alla fine del’44, non ci sarebbero più arrivati, perché a quel punto la situazione della Germania era già compromessa irrimediabilmente.

Né bisogna fare l’errore di pensare che quando gli alleati ebbero questa informazione, l’atomica fosse ormai pronta. E’ vero che ormai tutti i laboratori e le fabbriche del Progetto Manhattan funzionavano a pieno ritmo, ma i lavori di costruzione della bomba erano molto indietro, al punto che il generale Groves, che supervisionava l’intero Progetto per conto dell’Esercito degli Stati Uniti, era terrorizzato dall’idea che la guerra si potesse concludere senza che l’atomica fosse pronta. Insomma, dopo che i vertici politici, militari e scientifici alleati furono informati delle conclusioni della missione Alsos, il Progetto Manhattan andò avanti per tutt’altre ragioni rispetto alla motivazione iniziale. Come aveva capito fin dal ‘41 Lord Cherwell – consigliere scientifico del primo ministro inglese, Winston Churchill – la potenza che avesse costruito la bomba, avrebbe imposto le sue ragioni al mondo.

Passando invece al problema dell’uso dell’atomica, si continua a ripetere che la decisione di Truman di usarla contro le popolazioni civili di Hiroshima e Nagasaki fosse l’unico modo per costringere il Giappone alla resa incondizionata e quindi per chiudere con il minor numero di vittime possibile una guerra che, altrimenti, avrebbe richiesto una sanguinosa invasione del Giappone. Non è chiaro quanto avrebbe potuto essere sanguinosa quell’invasione, perché in alcune occasioni, Truman e i suoi più stretti consiglieri parlarono di mezzo milione di morti e in altre di un milione. Comunque, ammesso che sia accettabile un calcolo puramente ragionieristico delle vite da sacrificare o risparmiare – senza tenere conto se i graziati o i sacrificati siano truppe combattenti o civili inermi – grazie alla desecretazione di documenti cruciali rilasciati nel corso dell’ultimo cinquantennio, è emerso che l’uso della bomba non era necessario per arrivare a chiudere la guerra in breve tempo e senza l’invasione del Giappone, che esistevano alternative al suo uso e che Truman e i suoi collaboratori conoscevano queste alternative (5).

Purtroppo, al momento della decisione, prevalse la linea dura di alcuni consiglieri di Truman, primo fra tutti James Byrnes. E, per esempio, i documenti desecretati dimostrano che – come racconta anche Rotblat – Truman e i suoi ignorarono i tentativi dei giapponesi di arrivare a una mediazione che ponesse fine alla guerra, nonostante quei tentativi fossero ufficiali e di altissimo livello.Infine, di fronte a bombardamenti micidiali, come quello atomico o anche quello incendiario di Tokio, nella notte del 9 marzo del ‘45 – ricordato nella storia di Sawada – si tende a pensare che, in fondo, questa è la guerra e i bombardamenti devastanti sono un must della strategia di combattimento. Probabilmente, su questo tema, non possiamo citare una riflessione più interessante di quella fatta recentemente dall’ex segretario americano alla difesa Robert McNamara (6), che durante la Seconda Guerra Mondiale era parte del team di strateghi che dovevano migliorare (!) l’efficienza dei bombardamenti sul Giappone. “Per vincere una guerra”, riflette oggi McNamara, “è necessario bruciare vivi 100.000 civili in una notte, come fece Le May a Tokio?”. Oggi, McNamara sostiene che il senso delle proporzioni dovrebbe essere una linea guida in guerra e dunque sterminare dal 40 al 90 per cento delle popolazioni civili di 67 grandi città giapponesi e poi lanciare due bombe atomiche – come fecero gli americani – fu esagerato, rispetto agli obiettivi che ci si prefiggeva. “Le May”, racconta McNamara, “diceva che se avessimo perso la guerra, saremmo stati processati tutti come criminali. Dunque, era consapevole che le sue azioni erano immorali, ma cos’è”, si chiede McNamara, “che le rende immorali se perdi e non immorali se vinci?”.

BIBLIOGRAFIA

Gran parte del materiale alla base di questo articolo è tratto da Stefania Maurizi, Una bomba, dieci storie, Bruno Mondadori, Milano 2004. In particolare, le informazioni citate nei tre profili di Sawada, Cohen e Rotblat provengono da interviste ai tre personaggi in questione ivi pubblicate per intero.

Sulla storia della bomba atomica si vedano: Alperovitz G., The decision to use the atomic bomb, Vintage Books, New York 1995; Bernstein J., Hitler’s uranium club. The secret recordings at Farm Hall, Springer Verlag, New York, 2001; Rhodes R., L’invenzione della bomba atomica, Rizzoli, Milano 1990. Per alcune delle riflessioni contenute in questo articolo, si è rivelato di notevole valore il documentario di Errol Morris, The fog of war: eleven lessons from the life of Robert S.McNamara, 2003.

NOTE

(1) La bomba esplose in aria, 600 metri sopra al punto detto ground zero.

(2) Oggi Sam Cohen ha 84 anni. L’intervista alla base di questo profilo si è svolta nel settembre 2003.

(3) Harry Truman fu il presidente degli Stati Uniti che si ritrovò a decidere dell’uso della bomba atomica.

(4) Oggi Joseph Rotblat ha 97 anni. L’intervista alla base di questo profilo si è svolta nel giugno 2002.

(5) Per un’eccellente analisi della decisione di usare l’atomica, si veda G. Alperovitz, The decision to use the atomic bomb, Vintage Books, New York 1995.

(6) Le riflessioni di Robert McNamara sono contenute nel superbo documentario di Errol Morris, The fog of war: eleven lessons from the life of Robert S.McNamara, 2003.

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