Una difesa senza armi

Dopo la caduta del muro di Berlino assistiamo a un evidente paradosso: è avvenuto il più grande cambiamento di relazioni internazionali dell’intera storia umana senza che sia stato sparato quasi un solo colpo di fucile, grazie alla concomitante azione dei movimenti per la pace in Occidente, dei movimenti dissidenti nei paesi dell’Est, e di Michael Gorbaciov , e tuttavia né il movimento per la pace internazionale, né l’opinione pubblica in generale, né tantomeno i politologi e i decisori politici riconoscono la specificità di tale cambiamento. In altre parole, l’azione nonviolenta collettiva ha ampiamente dimostrato nel corso di questo secolo di essere in grado di sostituire le modalità di lotta armata in un’ampia gamma di situazioni conflittuali, dal micro al macro, ma i vertici militari e politici sono restii a prendere in considerazione l’alternativa nonviolenta. Si assiste anzi alla riproposta di modelli di difesa (chiamati eufemisticamente “nuovi”) che evidenziano ancor più esplicitamente il loro carattere offensivo, anziché difensivo. Le giustificazioni portate a sostegno di tale scelta sono superficiali, pericolose e infondate sul piano etico e su quello politico. Per limitarci a un solo esempio, basti pensare a quanto ha scritto il generale Carlo Jean, secondo il quale: “Sarà però difficile pervenire a un disarmo nucleare globale. Sarebbe anche pericoloso, perchè fra cinquant’anni circa il 15% dell’umanità dovrà difendere l’85% delle ricchezze mondiali che possiederà. Nulla fa pensare che dividerà tali ricchezze con gli Stati più poveri, visto che ha i mezzi per difendere la sua prosperità e il suo grado di sicurezza sociale” . Egli sostiene quindi che i popoli del sud del mondo reclameranno maggiore giustizia, ma noi non saremo disposti a redistribuire le nostre ricchezze. Pertanto, l’unica risposta, secondo questo ragionamento, dovrà essere quella del contenimento militare. Il secondo ordine di ragionamenti che solitamente sentiamo fare è quello secondo cui per affrontare il nuovo e dilagante “disordine mondiale”, in particolare con finalità “umanitarie”, dovremmo necessariamente ricorrere allo strumento militare, come è avvenuto nei Balcani, in Somalia, in Albania, in Mozambico, e così via. Anche questo argomento è fallace poiché come è sempre più evidente gran parte dei conflitti armati tuttora in corso richiederebbero ben altre forme di intervento, che facciano prevalere innanzitutto la capacità di prevenzione dei conflitti armati, e in secondo luogo la capacità di gestione nonviolenta del conflitto e di riconciliazione tra le parti confliggenti dopo il cessate il fuoco. Per questi compiti, come onestamente riconoscono anche alcune delle autorità militari, sono necessari corpi civili, non armati, appositamente preparati e addestrati a tali scopi. Alcuni modesti, sebbene ancora insufficienti, esempi in tal senso si sono avuti con il coinvolgimento di migliaia di volontari civili durante le “guerre jugoslave” e con la presenza di piccoli contingenti di “caschi bianchi” (in particolare spagnoli e italiani) costituiti da giovani obiettori di coscienza in servizio civile. Come dovrebbe essere peraltro ben noto, la quasi totalità dei conflitti armati (vedi Tutti i conflitti del mondo)in corso nell’ultimo decennio è costituita da conflitti armati a bassa intensità, di natura interna (guerre e conflitti armati civili) più che internazionali. E si è visto come in tali casi anche l’uso della minaccia e lo stesso ricorso alla forza militare non siano in grado di farvi fronte. In molte occasioni si è addirittura assistito al rifiuto da parte delle autorità militari di inviare i propri contingenti in situazioni ritenute troppo pericolose e che avrebbero presumibilmente comportato un’ingente perdita di vite umane tra i militari medesimi. In questi casi la comunità internazionale ha sostanzialemente assistito impotente agli eventi che si svolgevano, anche quando hanno assunto il carattere del genocidio (Bosnia, Ruanda, Algeria). In queste situazioni ci si rende conto che la grande panoplia di sistemi d’arma di offesa costruiti durante cinquant’anni di corsa agli armamenti sono del tutto inutilizzabili. Questi tipi di guerre e di conflitti armati sono infatti caratterizzati dalla presenza di forze irregolari (milizie, bande armate, narcotrafficanti, ecc) e dall’impiego prevalente di armi leggere diffuse sul territorio, poco controllabili e relativamente facili da procurare, affiancate ad azioni di natura terroristica. Le vittime di questi conflitti armati sono al 90% tra la popolazione civile, utilizzata come ostaggio delle parti in conflitto. Si assiste in alcuni casi al paradosso di piccoli gruppi armati capaci di terrorizzare un intero paese, nonostante non raccolgano il consenso della maggior parte della popolazione (Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Sri Lanka, ecc). In generale, si può sostenere che la cultura politologica e militare sviluppata durante il periodo del confronto Est-Ovest (Guerra fredda) è del tutto inadeguata per affrontare questi problemi, così come lo era anche in passato. Essa infatti si basa su una concezione del conflitto del tipo “vinci-perdi” (o “perdi-vinci”) in cui una delle parti deve prevalere totalmente sull’altra, distruggendola. Paradossalmente, questa concezione può portare, nei casi estremi nei quali si impieghi al massimo il proprio potenziale distruttivo, a un esito del tipo “perdi-perdi” in cui entrambe le parti si distruggono e nessuno ne esce vincitore. Anche con l’impiego delle sole armi convenzionali, in molti casi è ormai difficile distinguere il vincitore dal perdente: chi ha vinto in Bosnia, in Ruanda, in Somalia? L’unica cosa certa è che la popolazione civile è perdente, le ferite sono durature, i danni e i sacrifici immensi. Ma come passare da questa visione strategica a quella sostenuta dal pensiero e dalla cultura della nonviolenza, dal “vinci-perdi” al “vinci-vinci” in cui tutte le parti siano vincenti? Non possediamo certamente nessuna “bacchetta magica” che permetta di ottenere immediatamente il risultato desiderato, ma possiamo innescare un circolo “virtuoso” che sblocchi l’attuale circolo “vizioso” della guerra. Per far ciò occorre agire contemporaneamente in più direzioni, in particolare sulle quattro principali fonti di potere che sono altrettante cause fondamentali della guerra. Esse sono: potere culturale, potere militare, potere politico e potere economico. Anche se qui ci interessa soprattutto il potere militare, è bene passare rapidamente in esame anche le altre fonti di potere. Molto spesso sentiamo dire che parecchie guerre sono oggi di natura interetnica. Questa definizione, se non viene precisata, rischia di essere fuorviante e facilita il perdurare dello status quo. Secondo le analisi di molti autorevoli studiosi, le cause profonde dei conflitti armati e delle guerre sono da ricercarsi nelle quattro forme di potere che abbiamo richiamato più sopra, le quali agiscono concomitantemente, con dinamiche complesse, difficili da ricostruire e ancor più da generalizzare. Pur con questi limiti e con le dovute precauzioni si può dire, dall’esame di casi di studio specifici (ex-Jugoslavia, Ruanda) che una delle principali cause originarie è di natura economica, che oggi tende a diventare sempre più una causa economico-ambientale. Su di essa si inseriscono, in tempi e momenti successivi, le altre cause di natura culturale, politica e infine militare. Per alcuni studiosi, infine, (tra questi Johan Galtung, vedi anche Verso la seconda Guerra fredda?) la causa profonda, prevalente, alla quale sono riconducibili in ultima analisi tutte le altre è quella culturale. È dalla visione culturale che plasma e permea le nostre società che nascono le varie altre forme di potere e in ultimo i modelli di difesa, di gestione e risoluzione dei conflitti e i modelli di sviluppo. La cultura della nonviolenza pone al centro del proprio interesse e della propria visione del mondo la dignità di tutti gli esseri umani senza escluderne nessuno. Anzi, allarga il proprio orizzonte sino a preoccuparsi delle generazioni future e anche del benessere degli altri esseri viventi non umani. In altre culture prevale invece una visione che si limita a perseguire gli interessi di una parte soltanto dell’umanità. È da questa diversa impostazione originaria che nasce la concezione teorica e pratica della gestione, trasformazione e risoluzione nonviolenta dei conflitti. Lo scopo che ci si propone non è quello di far prevalere una parte sull’altra (i ricchi sui poveri oppure questi ultimi sugli altri; gli oppressi sugli oppressori e viceversa, con il pericolo che in futuro si invertano le parti) ma quello ben più ambizioso di riumanizzare entrambe le parti attraverso i meccanismi specifici sui quali si basa l’azione nonviolenta. Questi meccanismi sono stati ampiamente studiati (tra gli altri da Gene Sharp nella sua famosa opera, La politica dell’azione nonviolenta, 3 voll., EGA, Torino 1986-1997) e si basano essenzialmente sulla capacità dei gruppi nonviolenti di resistere alla repressione mantenendo saldo il loro coerente comportamento nonviolento. I fautori della dpn (difesa popolare nonviolenta) intendono trasformare questi principi, sinora applicati prevalentemente in modo spontaneo, in scelte organiche e istituzionali che permettano di organizzare preventivamente una risposta nonviolenta in situazioni di conflitto acuto. Molte esperienze sono già in corso, con esiti più o meno soddisfacenti, a seconda delle specifiche situazioni. Si va dai “caschi bianchi”, ai quali abbiamo già fatto cenno, alle PBI (Peace Brigades International) che operano in Guatemala, Sri Lanka, Colombia, a gruppi di volontari che sono intervenuti nei Balcani (Balkan Peace Team, Ambasciata di pace a Pristina) e nel Medio Oriente (Gulf Peace Team) sino alle azioni di gruppi di “donne in nero” (ex-Jugoslavia, Medio Oriente) e alla diplomazia popolare nonviolenta con finalità di mediazione(Comunità di Sant’Egidio in Mozambico, Algeria, Kossovo). Tutte queste esperienze (e molte altre ancora), per quanto interessanti, non costituiscono ancora un vero e proprio “modello di difesa nonviolenta”, per realizzare il quale occorrerà creare preventivamente un più largo consenso di base, una maggiore capacità di pressione sulle istituzioni e una crescita ulteriore di esperienze e di capacità formativa. Oggi, in Italia, solo la campagna OSM (obiezione di coscienza alle spese militari) si propone come obiettivo specifico quello di introdurre elementi di dpn nelle strutture del nostro paese. Ma purtroppo, come è ben noto, la crescita quantitativa della campagna è stata sinora molto, troppo, modesta. Non c’è dubbio, tuttavia, che se si vogliono affrontare realmente i grandi problemi economici, ambientali e politici che affliggono l’umanità in questa fine del secondo millennio, si debbano investire le nostre energie creative sempre più verso la cultura della nonviolenza. L’alternativa è quella di una crescente deumanizzazione, che non può che portare all’autodistruzione.

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