Vivisezione inutile, ma conveniente

Si è chiusa pochi giorni fa la raccolta di firme tra i parlamentari europei per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Ma l’obiettivo non è stato raggiunto. Occorreva, infatti, l’adesione di almeno la metà dei 626 deputati europei perché agli studenti e ai ricercatori di tutti i Paesi dell’Unione fosse riconosciuto il diritto di rifiutarsi di eseguire test sugli animali. Ma appena in 65 hanno firmato, tra cui 38 italiani. Un dato che non stupisce visto che il nostro è stato il primo Paese al mondo a riconoscere questo diritto con una legge, la 413/93. Ma davvero la scienza medica e la salute dell’essere umano non possono fare a meno del sacrificio di milioni di animali? “Il problema etico si fonda su un equivoco: la convinzione che la sperimentazione animale sia utile al progresso scientifico”, dice Stefano Cagno, psichiatra presso l’Azienda locale ospedaliera di Vimercate (Milano) e autore di “Gli animali e la ricerca. Viaggio nel mondo della vivisezione” (Editori Riuniti, 2002). “Secondo me, invece, sezionare gli animali da vivi, testare su di loro i farmaci, indurli artificialmente a comportarsi in un certo modo, non ha alcun valore scientifico”. Una convinzione che non poggia su argomentazioni zoofile ma sulla “teoria delle 3 S” (specie, sperimentazione, stabulazione). “Ogni specie”, spiega il medico che è membro del Comitato scientifico antivivisezionista, “possiede un Dna e dunque una propria anatomia, fisiologia, biochimica. Ragione per cui i dati finali di un esperimento non possono essere trasferiti da una specie all’altra. Non a caso, i test sugli animali non sostituiscono quelli sull’essere umano ma ne sono solo la premessa”. Dubbio sarebbe anche il valore scientifico dei risultati così ottenuti. “La sperimentazione”, dice Cagno, “obbliga ad alterare artificialmente i meccanismi naturali che generano le malattie: un tumore che insorge in un coniglio dopo che lo si è spennellato ripetutamente di catrame non è l’equivalente di un tumore sorto nell’essere umano in condizioni naturali”. Inoltre, la stabulazione, ovvero la vita artificiale nelle gabbie, non sarebbe un buon modello sperimentale: “Inibisce il sistema immunitario, con l’aggravante che mentre gli esseri umani possono darsi una spiegazione razionale e percepire il futuro in termini di prospettive migliori, gli animali vivono solo il presente”, conclude lo psichiatra. La vivisezione, dunque, oltre che inutile sarebbe fuorviante. “Nel 1998 è apparsa sul Journal of American Medical Association (Jama) una ricerca che quantificava i farmaci commercializzati negli Usa che avevano provocato gravi reazioni avverse (compresa la morte): il 52 per cento. Nessuno degli effetti collaterali si era verificato negli animali. Lo stesso Viagra (utilizzato contro le disfunzioni erettili) ha portato a 45 decessi su un milione di prescrizioni, il Talidomide (un sedativo) ha fatto nascere 10 mila focomelici, il Cliochinolo (un disinfettante intestinale) ha reso 30 mila giapponesi ciechi e paralizzati. E gli esempi potrebbero continuare”. Infine, si tratterebbe di un metodo superato. “Nessuno si sognerebbe di guidare un’automobile degli anni Trenta. Eppure la sperimentazione animale si basa su un principio del 1927, il Dl 50, che prevede di testare la tossicità di un farmaco, accrescendone le dosi fino a uccidere la metà degli animali utilizzati”. I metodi sostitutivi non mancano: primo fra tutti l’epidemiologia. “Per decenni”, va avanti lo studioso, “sono state fatte fumare sigarette agli animali senza che questi si ammalassero di cancro al polmone. Una correlazione scoperta invece nel 1954 dal ricercatore britannico Richard Doll, misurando nel tempo l’incidenza della malattia su un certo numero di colleghi che fumavano. Allo stesso modo sono stati evidenziati tutti i fattori di rischio delle malattie cardiovascolari”. Inoltre, si possono usare le colture cellulari, si può confrontare la sostanza che si vuole sperimentare con le strutture chimiche già in commercio ed è ormai facile ottenere simulazioni al computer di organi e tessuti. Le molecole di molti farmaci poi possono essere testate direttamente sui tessuti umani, dietro il consenso dei pazienti, ma anche sui materiali di scarto delle operazioni chirurgiche e delle biopsie. “La clonazione e l’ingegneria genetica infine”, aggiunge Cagno, “ci vengono incontro: si possono clonare, per esempio, determinati recettori e metterli a contatto con un farmaco per vedere se vi si legano in maniera significativa”. La maggior parte del denaro pubblico, tuttavia, continua a essere investita negli esperimenti su animali. Cagno punta il dito contro gli scienziati e le industrie farmaceutiche: “Per i ricercatori la vivisezione è un metodo economico che permette numerose pubblicazioni e dunque una rapida carriera universitaria. Per le case farmaceutiche è invece uno strumento malleabile: un punto di forza quando si tratta di sostenere la validità di un nuovo farmaco, un limite oggettivamente insuperabile quando un medicinale si rivela dannoso per la salute e deve difendersi in tribunale”.

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