Worldwatch ’98, allarme-Terra

Puntuale come ogni gennaio, il Worldwatch Institute spedisce in libreria in questi giorni “State of the World 1998”, quindicesimo rapporto annuale sullo stato della Terra e del suo ambiente realizzato dal prestigioso istituto americano. Un rapporto che ricalca – nella impostazione così come nelle tesi di fondo – i predecenti. L’allarme del Worldwatch Institute per i destini del pianeta è sempre alto. In particolare, l’edizione 1998 di State of the World concentra l’attenzione sull’economia globale che – è opinione dell’organizzazione di Washington – sta diventando troppo grande per l’ecosistema terrestre, e pone una nuova sfida ai leader politici mondiali: “Se l’economia mondiale continua a espandersi così come è strutturata potrebbe arrivare a distruggere i suoi supporti naturali e a declinare”, sostiene il presidente dell’istituto, Lester Brown, “ma si intravede anche la possibilità di realizzare la transizione verso una economia sostenibile da un punto di vista ecologico sempre se adotteremo le giuste politiche. E così come le sfida è senza precedenti, altrettanto sono le opportunità economiche per i paesi e le aziende che sviluppano le tecnologie adatte a effettuare questa transizione”.Qualcuno potrebbe pensare che questi pericoli siano il frutto di un fallimento dell’economia umana. Si tratta, invece, delle conseguenze dei suoi straordinari successi. Tra il 1950 e il 1997, infatti, l’economia globale è praticamente aumentata di sei volte. La crescita durante gli ultimi sette anni è superiore a quella avvenuta nei diecimila anni intercorsi tra la nascita dell’agricoltura e il 1950. La storia, insomma, non offre precedenti né per la crescita economica, né per l’aumento del consumo di risorse naturali dell’ultimo mezzo secolo: l’uso del legno è più che raddoppiato, quello di carta è cresciuto di sei volte, cinque il pesce, tre l’acqua e il grano, quattro l’acciaio, cinque il consumo di combustibili fossili, mentre gli inquinanti di aria e acqua si sono moltiplicati di diverse misure. Se l’economia continua a espandersi, lo stesso non avviene per gli ecosistemi dai quali dipende, e ciò porta verso una sempre più critica relazione tra i due sistemi.Così, mentre tutti gli indicatori globali dell’economia sono positivi, quelli ambientali sono in maniera crescente negativi. I segni dello stress – documenta State of the World 1998 – possono essere visti nella restrizione delle foreste, nella diminuzione dell’acqua disponibile, nell’erosione dei suoli, nella sparizione delle zone umide, nel collasso delle aree di pesca, nel deterioramento dei pascoli, nel prosciugarsi dei corsi d’acqua, nella crescita dell’anidride carbonica, nell’aumento delle temperature e nell’estinzione di specie animali e vegetali. “Questi indicatori ambientali”, afferma il Worldwatch Institute, “mostrano chiaramente che l’economia occidentale basata sui combustibili fossili e centrata sulle automobili non è un modello accettabile per il mondo”. E da nessuna parte questi limiti sono visibili come in Cina: “Poiché la Cina sta crescendo a ritmi straordinari è in effetti una storia esemplare”, spiega Brown, “la Cina ci sta insegnando che il modello di sviluppo industriale occidentale lì non funzionerà perché non ci sono abbastanza terra, acqua e risorse energetiche affinché ogni cinese possa consumare secondo gli standard statunitensi”.Ma il 1997, ricorda nell’introduzione il presidente del Worldwatch, è stato soprattutto l’anno della grossa cappa di fumo, più larga della superficie degli Stati Uniti che si è stesa sopra il Sudest dell’Asia, “oscurando il cielo e lasciando circa venti milioni di persone a respirare per settimane un’aria trasformata in una specie di zuppa tossica”. L’area colpita dalla nube include Indonesia, Malaysia, Filippine, Thailandia, Vietnam, Singapore, Brunei e Papua Nuova Guinea. Molte ambasciate straniere hanno rispedito a casa il personale non indispensabile e le famiglie dei diplomatici, ma per gli abitanti del luogo l’unica opportunità è stata coprirsi il viso con la mascherina, in attesa che l’aria tornasse respirabile.Nonostante le centinaia di morti dirette, e danni non ancora calcolabili all’ecosistema, questa crisi ecologica senza precedenti ha ricevuto molta meno attenzione del disastro finanziario nella stessa regione. “Tuttavia le economie non resteranno sane a lungo se gli ambienti naturali che le sostengono non saranno in salute essi stessi”, scrive Brown, “questo è un tema che ricorre annualmente in State of the World, ma che figura in maniera prominente in questo rapporto”. Molti saggi, infatti, si occupano degli intricati legami tra le foreste, gli animali selvaggi, altri sistemi naturali e le comunità umane che dipendono da essi. E, nell’ultimo capitolo, l’istituto di Washington esplora la possibilità di costruire un’economia non dipendente dall’indiscriminato inquinamento dell’atmosfera, dal taglio a raso delle foreste e dallo sfruttamento insostenibile delle risorse idriche: “Un’economia del genere non è solo realizzabile, noi crediamo, ma alla fine potrebbe essere più conveniente, e produttiva, di quella che ci sostiene oggi”. E la crescita del giro di affari legato all’energia eolica – circa il 25 per cento in più ogni anno: uno dei settori più dinamici dell’economia globale – potrebbe essere uno dei segnali in questa direzione.

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