Malaria: dalla genetica nuove speranze per un farmaco

Combattere il Plasmodium falciparum, uno dei parassiti che causano la malaria, non è facile: di farmaci “moderni” davvero efficaci non ce ne sono e per trattare i pazienti infetti la medicina è spesso costretta a fare affidamento su rimedi chimici di origine naturale già noti secoli fa. Il gruppo di ricerca coordinato da Min Zhang del Centro per la Salute Globale e le Malattie Infettive (University of South Florida, USA) ha scoperto quali geni del plasmodio sono essenziali per la sua moltiplicazione all’interno dei globuli rossi (eritrociti), aprendo così nuove strade alla formulazione di principi attivi che possano bloccare lo sviluppo della malattia. Lo studio è pubblicato su Science.

I protozoi responsabili della malaria, diffusi dalle zanzare infette attraverso una semplice puntura, fanno ammalare ogni anno circa 200 milioni di individui, causando ben 500.000 decessi. Identificare i geni che consentono al parassita della malaria di colpire gli eritrociti e moltiplicarsi al loro interno è stata dunque la sfida di Zhang e colleghi, che hanno scelto un approccio basato su una molecola chiamata piggyBac. Si tratta di un trasposone, ovvero una sequenza di materiale genetico in grado di spostarsi all’interno di una molecola di DNA, andando a “spegnere” di volta in volta il funzionamento di geni diversi.

Gli scienziati conoscono piuttosto bene P. falciparum: il suo genoma, infatti, è stato sequenziato 15 anni fa. Perché allora non si riescono a formulare farmaci in grado di sconfiggerlo? Sequenziare un genoma significa conoscere l’ordine con cui si susseguono le quattro basi azotate: un’informazione che racconta molto di come è fatto un essere vivente, ma che non è sufficiente a svelarne tutti i segreti. Una volta che un DNA è stato sequenziato, vanno infatti studiati i singoli geni per capire a cosa servono e quali sono essenziali per la vita dell’organismo in questione. Per farlo gli specialisti creano dei mutanti.

Quando in un genoma c’è una preponderanza di alcune basi azotate rispetto ad altre, come nel caso del DNA del parassita della malaria che presenta l’80% di adenina e timina, ottenere dei mutanti diventa complicato, perché bisogna mettere a punto protocolli scientifici diversi da quelli abituali. Con P. falciparum non aveva funzionato neppure CRISPR-Cas9, una delle tecniche genetiche considerate tra le più promettenti.

Grazie agli oltre 38.000 mutanti ottenuti con l’utilizzo del trasposone piggyBac, il gruppo di ricercatori è invece riuscito a capire che, dei 5.380 geni del parassita, 2.680 sono essenziali per la fase del suo ciclo vitale che si svolge nei globuli rossi. Come dichiarato da John White e Pradipsinh K. Rathod dei National Institutes of Health americani, i risultati ottenuti da Zhang e colleghi offrono un importante punto di partenza per identificare processi farmacologici adatti a sconfiggere la malaria nella specie umana.

Se anche, nei prossimi 10 o 20 anni, la comunità internazionale dei ricercatori esperti di malaria scoprisse che solo il 10% dei 2.680 geni è effettivamente un buon target per un farmaco, si tratterebbe comunque di un ottimo risultato. Nel frattempo, sono allo studio approcci diversi che cercano di prevenire lo sviluppo della malattia sfruttando un vaccino.

Articolo prodotto nell’ambito del Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara

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