Agli albori di Csi

E. J. Wagner
La scienza di Sherlock Holmes
Bollati Boringhieri 2007, pp. 228, euro 20,00

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Il titolo italiano del libro può lasciare qualche dubbio su cosa si intenda per “scienza”. Nell’originale, in effetti, viene molto opportunamente aggiunto un sottotitolo “The Real Forensics Behind the Great Detective’s Greatest Cases”, per rendere chiaro che si parla della scienza forense: quella cioè che aiuta gli investigatori a fare luce sui reati.

Naturalmente la scelta di usare Sherlock Holmes come punto di partenza non è certo un caso. Il periodo alla fine del diciannovesimo secolo è quello in cui nel Vecchio Mondo si era convinti che mancava pochissimo a scoprire tutto di tutto. Arthur Conan Doyle poi aveva una formazione da medico, come il suo alter ego Watson; ma le sue conoscenze sono meglio rappresentate dalle affermazioni di Holmes, come si può facilmente immaginare. Tra le frasi spesso dette qua e là senza nemmeno pensarci troppo su dal detective ci sono così degli accenni nemmeno troppo velati a quanto stava cambiando la scena poliziesca.

Nel libro l’autrice, esperta di medicina forense, racconta pertanto le conquiste della scienza dell’Ottocento attraverso i riferimenti nelle opere dell’investigatore londinese. Quello che si nota nei vari capitoli, dall’uso delle impronte digitali alle autopsie ma anche al modo in cui la polizia deve operare sui luoghi del delitto, è come Conan Doyle fosse estremamente attento alle novità che si stavano verificando, e in un certo senso facesse opera di proselitismo con i racconti che scriveva. Più che i casi risolti oppure no nel passato, forse è ancora più interessante scoprire l’evoluzione della medicina forense – anche se i particolari potrebbero essere sconsigliati ai deboli di cuore – e scoprire le diverse credenze che si sono succedute nei secoli, per esempio quella secondo cui la retina avrebbe conservato l’ultima immagine che un morto aveva visto, oppure lo studio teorico di Darwin che aveva predetto l’esistenza nel Madagascar di una falena che nessuno è riuscito a trovare.

Oltre ai vari casi giudiziari descritti nei capitoli, sono molto interessanti le digressioni su due detective francesi: Vidocq, la cui vita è talmente romanzata che non si sa quali parti siano vere e quali completamente inventate, e Bertillon, l’inventore del metodo antropometrico usato prima delle impronte digitali per schedare i possibili sospetti. Quest’ultimo non fa certo una bella figura nel testo, e anzi appare come uno stupido che ha avuto un colpo di genio e vi si è abbarbicato; Vidocq, invece, viene considerato dalla Wagner il vero iniziatore dei metodi investigativi moderni e un modello al quale Conan Doyle si è sicuramente ispirato.

L’autrice ha uno stile di scrittura molto leggero, più britannico che statunitense come lei è, stile che è stato fortunatamente mantenuto nell’ottima traduzione che scorre molto rapidamente. È comunque una lettura più interessante per gli amanti della medicina legale e della storia più che per un appassionato di gialli, che però potrà sicuramente apprezzare tutti i riferimenti anche minuti alle avventure sherlockiane.

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