Per intercettare segnali alieni dovremmo solo avere pazienza

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(Foto: Bruce Warrington su Unsplash)

Un giorno Edward Teller, fisico statunitense, passeggiava con il collega Enrico Fermi: stavano andando a pranzo, e chiacchieravano amabilmente di un argomento vagamente collegato ai viaggi spaziali. Teller stesso dice di non ricordarlo con certezza, ma che probabilmente si erano soffermati a parlare dei dischi volanti, e del fatto che naturalmente non fossero reali. “Ricordo anche – continua Teller – che fu proprio Fermi a sollevare esplicitamente la questione, chiedendomi cosa ne pensassi e quanto ritenessi probabile che entro i dieci anni successivi [siamo nel 1950, nda] avremmo osservato un oggetto materiale muoversi più veloce della luce. Risposi 10-6, e Fermi disse che era una probabilità troppo bassa. Secondo lui era superiore al dieci per cento. Qualche minuto dopo, mentre stavamo pranzando e parlando di tutt’altro, Fermi se ne uscì con la domanda ‘Ma allora dove sono tutti?’, che provoco una risata generale perché, nonostante la frase fosse totalmente avulsa dal contesto, tutti capimmo che stava parlando della vita extraterrestre”. Una domanda non da poco, che sarebbe passata alla storia come paradosso di Fermi, per l’appunto, e che oggi può essere riformulata in termini più moderni: se soltanto la Via Lattea ospita (si presume) 10 miliardi di pianeti abitabili, e se nell’Universo ci sono miliardi di galassie, è mai possibile che la vita si sia sviluppata solo sulla Terra? Se così fosse avrebbe ragione Carl Sagan a sostenere che “sarebbe davvero un enorme spreco di spazio”: e allora, se è molto ragionevole pensare che non siamo soli (ma c’è anche chi è convinto del contrario), dove sono tutti quanti?Perché non siamo ancora riusciti a intercettare alcun segnale di un’intelligenza extraterrestre? Certamente non si può dire che non ci abbiamo provato, né che non ci stiamo provando, anzi: negli ultimi sessant’anni non abbiamo lesinato alcuno sforzo, anche se, al momento, i risultati della ricerca sono tutt’altro che soddisfacenti.

Un punto di vista inedito

E oggi Claudio Grimaldi, ricercatore del laboratorio di biofisica statistica alla École Polytechnique Fédérale de Lausanne (Epfl), in Svizzera, e affiliato del Centro Ricerche Enrico Fermi (Cref) di Roma, ha formulato una nuova ipotesi che potrebbe spiegare il perché di questo assordante silenzio che dura da oltre mezzo secolo. Il lavoro di Grimaldi, che abbiamo raggiunto per delucidazioni, è stato pubblicato sulla rivista The Astronomical Journal.

“In generale – ci ha spiegato – quando si parla di ricerca di segnali provenienti da civiltà extraterrestri intelligenti ci si riferisce alla ricerca di segnali elettromagnetici, le cosiddette technosignature. È un’attività di ricerca che va avanti da 63 anni [da quando Frank Drake ottenne l’approvazione per il progetto Ozma, il primo tentativo di ricerca sistematica di segnali alieni, e ogni giorno, per alcune ore, puntò un radiotelescopio di ventisei metri verso Tau Ceti e una manciata di altre stelle, nda] ma fino a oggi non abbiamo ancora trovato niente. Le principali spiegazioni sono due, una molto ottimista e una molto pessimista. Secondo la prima, la Terra sarebbe in realtà continuamente attraversata da segnali extraterrestri, ma i nostri telescopi non sono abbastanza sensibili per rivelarli, oppure puntano nella direzione sbagliata (la regione che effettivamente osservano sta all’intero Universo come l’acqua di una piscina sta all’acqua di tutti gli oceani). Secondo l’ipotesi pessimista, invece, non abbiamo osservato alcun segnale perché, semplicemente, non c’è alcun segnale da osservare. Oppure perché è così lontano che è come se non ci fosse”.


“Vi spiego perché potremmo non incontrare mai gli alieni”


Piccola parentesi matematica, necessaria

Il già citato Frank Drake, nel 1961, mise a punto un’equazione (che porta il suo nome) probabilistica per stimare il numero di civiltà extraterrestri e in grado di comunicare nella nostra galassia. Cioè:

N = R* × fp × ne × fl × fi × fc × L

fattori dell’equazione sono: il tasso medio annuo di formazione di nuove stelle nella Via Lattea; la frazione di stelle che possiedono pianeti; il numero medio di pianeti che si trovano nella cosiddetta zona abitabile, cioè alla distanza giusta dalla propria stella, quella che consentirebbe la presenza di acqua liquida sulla loro superficie; la frazione di questi pianeti su cui effettivamente si è sviluppata la vita; la frazione di pianeti che ospitano vita intelligente; la frazione di pianeti in cui la vita intelligente è abbastanza evoluta da riuscire a comunicare con noialtri; la durata temporale di esistenza di queste civiltà. Alcuni di questi fattori, al momento, sono abbastanza noti: nella Via Lattea, per esempio, nasce in media una nuova stella ogni anno, e vi risiedono centinaia di miliardi di pianeti, un quinto dei quali si troverebbero nella zona abitabile. Sugli altri fattori, invece, brancoliamo ancora nel buio, e molte delle assunzioni avanzate finora sono semplici speculazioni o poco più: per questo, il valore di N è compreso in una forbice ancora molto allargata, che va da uno a diecimila.

In medio stat virtus

Torniamo a Grimaldi. Il suo lavoro, ci spiega, si colloca a metà tra le due ipotesi. “Mi sono ispirato ai materiali porosi, come per esempio le spugne, costituite da pori che si aprono e si chiudono, e ho costruito per analogia un modello della Via Lattea immaginando che sia, per l’appunto, simile a una spugna. Il mio modello parte dall’assunzione che nella Via Lattea ci sia almeno un segnale elettromagnetico di origine tecnologica e che la Terra si trovi da almeno sessant’anni in un “poro silenzioso” della spugna: se le cose stanno così, allora vuol dire che, statisticamente, dovrebbero esserci tra i 2 e i 5 segnali elettromagnetici ogni secolo. Un tasso più o meno simile a quello delle supernovae, cioè abbastanza basso. Ora, nello scenario più ottimista dovremmo aspettare almeno 60 anni prima di rivelare un segnale; in quello più pessimista (parliamo sempre di scenari probabilistici) dovremmo aspettare 2mila anni”. Cosa vuol dire, in pratica? Due cose: anzitutto che dobbiamo armarci di molta pazienza, e poi che non conviene costruire telescopi ad hoc per la ricerca di segnali alieni: “La migliore strategia potrebbe essere quella già adottata in passato dal Seti: analizzare i dati provenienti dai telescopi che già ci sono, e che sono già usati per altri fini, e vedere se vi sono nascosti segnali elettromagnetici potenzialmente alieni. Questa dovrebbe diventare la pratica standard”.

Via: Wired.it

Credits immagine: Bruce Warrington su Unsplash