Categorie: Salute

Alzheimer, studiare i casi resistenti per sviluppare nuove terapie

Il segreto per contrastare la malattia di Alzheimer potrebbe risiedere nei membri delle poche decine di famiglie al mondo funestate dalla forma ereditaria di questa demenza. Un team internazionale di ricercatori, infatti, ha confermato che esistono persone con la mutazione genetica (PSEN1) E280A ad alto rischio di Alzheimer precoce che riescono a resistere al proprio destino ben oltre le previsioni.

Dopo la donna individuata nel 2019, un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Medicine descrive un altro caso clinico con esito analogo, ma con caratteristiche molecolari differenti. Per gli esperti la scoperta potrebbe aprire la strada a nuove linee di ricerca su target molecolari che in futuro potrebbero essere oggetto di strategie terapeutiche.

Più di 55 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di un qualche tipo di demenza. La forma più diffusa secondo l’Organizzazione mondiale della sanità è la malattia di Alzheimer, ed il rischio di svilupparla e quando è influenzato sia da fattori genetici sia ambientali. Tuttavia, c’è una rara forma a esordio precoce ereditabile, direttamente connessa alla presenza di una mutazione sul gene presenilina 1 (nota come (PSEN1) E280A): i portatori hanno la certezza, o quasi, di sviluppare l’Alzheimer prima dei 50 anni.


Alzheimer: uno strano caso giovanile


I due casi di resistenza alla forma ereditaria

Quel “quasi” dal 2019 ha assunto l’identità di una persona particolare, una donna che, nonostante fosse portatrice della mutazione, ha cominciato a sviluppare demenza solo intorno ai 70 anni, quando tutti i membri portatori nella sua famiglia sono stati colpiti intorno ai 40 anni. Probabile responsabile di questa straordinaria resistenza è una mutazione sul gene dell’apolipoproteina E, chiamata Christchurch.

A questo caso eccezionale oggi si unisce quello analogo del “paziente J”, anch’egli con la mutazione genetica (PSEN1) E280A, anch’egli scampato al deterioramento cognitivo ben oltre le previsioni, fino ai 67 anni. Nell’articolo pubblicato su Nature Medicine, i ricercatori descrivono il caso clinico del paziente J includendo gli esiti di esami cognitivi e di neuroimaging, e, dopo la morte dell’uomo dovuta a una complicazione connessa alla malattia neurodegenerativa, anche le informazioni ricavate dallo studio del suo cervello. Il tessuto cerebrale del paziente J – appuntano gli autori della ricerca – mostrava le placche di proteina beta-amiloide tipiche dei malati di Alzheimer, ma non gli accumuli di proteina tau nella corteccia entorinale del cervello. L’analisi genetica ha poi rilevato una sorpresa: niente mutazione Christchurch, ma una (poi chiamata Colbos) sul gene di un’altra proteina cerebrale, la relina.

Le possibili prospettive

Come spiega a El Pais Diego Sepulveda-Falla dello University Medical Center Hamburg-Eppendorf (Germania), che ha partecipato alla ricerca, la relina è espressa nel cervello adulto molto meno della apolipoproteina E e solo da alcune cellule. Eppure, “La nostra scoperta suggerisce che questo effetto localizzato [nella corteccia entorinale del cervello, ndr] è sufficiente per ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer di diversi decenni“.

Data la rarità di casi simili e la conseguente scarsità di dati, è decisamente prematuro pensare a un’applicazione clinica della scoperta. I risultati conseguiti, però, aprono a nuove linee di ricerca, per cercare, per esempio, di imitare l’effetto della mutazione Colbos e verificare i suoi effetti su altri modelli di malattia di Alzheimer.

Via: Wired.it

Credits immagine: Robina Weermeijer su Unsplash

Mara Magistroni

Nata e cresciuta nella “terra di mezzo” tra la grande Milano e il Parco del Ticino, si definisce un’entusiasta ex-biologa alla ricerca della sua vera natura. Dopo il master in comunicazione della scienza presso la Sissa di Trieste, ha collaborato con Fondazione Telethon. Dal 2016 lavora come freelance.

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